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Sambizanga di Sarah Maldoror

Trittico: Sarah Maldoror

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10 minuti di lettura

Raramente si parla di cinema africano, e spesso lo si fa generalizzando: non esiste il “cinema africano” tanto quanto non esiste il “cinema europeo”. Eppure vi sono caratteristiche stilistiche che tornano a presentarsi nelle varie produzioni nazionali che hanno costellato il continente d’autori. Una di queste caratteristiche è la ripresa del forte sentimento anticolonialista che ha contraddistinto moltissime delle rivoluzioni che alla fine della Seconda Guerra Mondiale spinsero l’Europa ad abbandonare le ultime colonie ancora sotto il loro controllo: Congo, Algeria, Angola, Guinea-Bissau, solo per citarne alcune.

Proprio da qui parte la storia di Sarah Maldoror, regista francese originaria del Guadalupe – tutt’ora territorio francese oltremare -, figlia di quella colonizzazione che avrebbe combattuto per tutta la sua carriera. In memoria della sua scomparsa durante il Covid nel 2020, quest’anno il Cinema Ritrovato ha proposto al suo pubblico una trilogia di corti diretti dalla regista attraverso i quali è possibile inquadrare l’importanza e la pervasività della sua intera produzione.

Sarah Maldoror e le rivoluzioni africane

Frame di Sambizanga di Sarah Maldoror

Per meglio conoscere la donna e l’artista, è necessario guardare al suo primissimo lavoro nel cinema: Sarah Maldoror fu aiuto-regista sul set de La Battaglia di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo, dedicato alla guerra di liberazione condotta da rivoluzionari algerini contro l’occupazione francese. L’esperienza è profondamente formativa per Maldoror che, si ritroverà poi anni più tardi a dirigere il suo primo lungometraggio proprio su di un’altra delle rivoluzioni africane più importanti del secolo: Sambizanga (1972) racconta la sanguinosa rivoluzione angolana che riuscì a scacciare i portoghesi solo dopo la Rivoluzione dei Garofani del 1974.

Sambizanga è un film grezzo perché la guerra lo era altrettanto: a metà fra la finzione e il documentario, Sarah Maldoror si concentra sulla lotta delle donne angolane per la loro emancipazione coloniale; il film vibra di rabbia, di uno spirito battagliero che in pochi altri è facile trovare con la stessa intensità. Eppure Sambizanga è solo l’inizio della ricerca estetica e politica di Sarah Maldoror. Veniamo dunque alla Trilogia del Carnevale presentata al Cinema Ritrovato.

Fogo, Fire Island (1979)

Frame di Fogo, Fire Island di Sarah Maldoror

L’indipendenza di Capo Verde fu meno complessa di quella di tanti altri paesi africani, ma non meno dolorosa: l’ex-colonia portoghese si trovò a dover decidere se annettersi oppure no alla vicina Guinea-Bissau, nella quale il PAIGC (Partito Africano per l’Indipendenza della Guinea e di Capo Verde) aveva preso il controllo e cacciato i Portoghesi da sé. L’isola di Fogo, parte di Capo Verde, ospita un vulcano ed una popolazione di 30.000 abitanti, che coesistono nello stesso fazzoletto di terra.

Qui Sarah Maldoror punta la telecamera verso uno dei suoi soggetti preferiti: la fatica umana, il lavoro. Riprende l’economia dell’isola, fondata sulla coltivazione e sulla pesca e ne riprende i rituali antichi e moderni: due feste simbolo della storia dell’intero paese coesistono in apparente contraddizione. La festa della Bandeira di Sao Filipe è di importazione portoghese e celebra gli ex-colonizzatori, mentre lo stesso giorno viene festeggiato il primo maggio, la festa dei lavoratori organizzata dal PAIGC. Inquadrando queste due festività, Sarah Maldoror racconta tutte le complessità del luogo con poche immagini.

Un Carnaval dans le Sahel (1979)

Frame di Un Carnaval dans le Sahel di Sarah Maldoror

Rimanendo nelle stesse zone Sarah Maldoror riprende il carnevale di S. Vicente, altra isola di Capo Verde: qui la celebrazione è più classicamente carnevalesca, fatta di maschere e costumi sgargianti. Eppure l’occhio politico e sociale della regista trova in mezzo al caos dei festeggiamenti continui rimandi alla realtà della decolonizzazione: pistole, che siano reali o parte di un costume, abbondano in mano ad adulti e bambini, mentre ad un certo punto un uomo mascherato si gira verso la macchina ed apre il borsellino per mostrare che è vuoto, non ci sono soldi.

Dei tre corti questo è quello maggiormente vicino alle sensibilità etnografiche di Agnes Vardà: Salut les Cubains (1963) o Plaisir d’Amour en Iran (1976) sono chiari punti di riferimento per Sarah Maldoror, almeno quanto lo sono i “documentari poetici” di Vittorio de Seta come Isole di Fuoco (1955) o Pasqua in Sicilia (1955).

À Bissau, le Carnaval (1980)

Frame di A Bissau, le Carnaval di Sarah Maldoror

A differenza dei due corti precedenti, qui un uomo viene direttamente intervistato in mezzo al caotico carnevale di Bissau: l’uomo è rappresentante del PAIGC, i cui simboli e slogan vengono anche qui costantemente riproposti a fianco di quelli più tradizionali, e in merito all’usanza guineense di costruire complesse maschere per le festività afferma testualmente: “la resistenza culturale ci ha permesso di operare anche una resistenza militare“.

Le considerazioni più importanti da fare sono due: la prima è che in questo caso, il corto fa esplicitamente riferimento a teorie antropologiche secondo cui riti sociali – il carnevale in particolare – siano il terreno culturalmente più fertile di ogni società; è infatti in questi momenti in cui la normalità viene ribaltata (tutti sono mascherati, gli scherzi sono accettabili…) che i simboli possono trovare nuovi accostamenti e quindi subire un processo di risignificazione. Una corona è normalmente simbolo di potere, ma se indossata sopra una maschera da giullare l’immagine del monarca traballa. Sarah Maldoror pone enfasi proprio su come i costumi guineensi siano ispirati non solo a leggende folkloristiche ma anche a politici, personaggi famosi e temi d’attualità.

Proprio a questo proposito, la seconda considerazione: sarà anche vero che il PAIGC ha difeso la cultura del Guinea-Bissau, ma non deve aver fatto un gran buon lavoro, poiché nelle parate sfilano grottesche maschere di Pippo e Topolino. Bambini travestiti da cowboys, ragazzi che modellano la propria maschera su fumetti dell’orrore, Sarah Maldoror cattura con lucidità in cosa si traduce materialmente il colonialismo culturale e come gli effetti di un libro od un film continuino ad essere pervasivi anche dopo che i fucili e i carri armati sono stati scacciati.

Conclusioni

Frame di Sambizanga di Sarah Maldoror

Con questo breve excursus attraverso i lavori di Sarah Maldoror si è cercato di restituire l’intuitività con cui la regista si è sempre saputa porre nei confronti dei contesti da lei visitati e studiati. I suoi corti e il suo Sambizanga (1972) continuano ad essere di grande valore per capire le complessità del mondo e le colpe che l’Europa non ha ancora deciso di affrontare nel merito.

Pare doloroso ma doveroso chiudere questa riflessione ricordando che poco meno di un mese fa, la Nuova Caledonia – un altro territorio d’oltremare simile alla natia Guadalupe di Sarah Maldoror – ha subito una sanguinosa ondata di repressioni da parte delle autorità francesi dopo che il presidente Immanuel Macron ha proposto di estendere il diritto di voto sull’isola anche ai francesi trasferitisi lì da almeno dieci anni, di fatto annientando l’opposizione politica dei partiti indipendentisti. Il colonialismo ha solo cambiato pelle, ma continua ad incatenare un intera parte di mondo con strumenti nuovi dai travestimenti democratici, come lupi truccati da agnelli.

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Appassionato e studioso di cinema fin dalla tenera età, combatto ogni giorno cercando di fare divulgazione cinematografica scrivendo, postando e parlando di film ad ogni occasione. Andare al cinema è un'esperienza religiosa: non solo perché credere che suoni e colori in rapida successione possano cambiare il mondo è un atto di pura fede, ma anche perché di fronte ai film siamo tutti uguali. Nel buio di una stanza di proiezione siamo solo silhouette che ridono e piangono all'unisono. E credo che questo sia bellissimo.

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