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True Crime

True crime: perché amiamo sentire parlare di omicidi?

La spettacolarizzazione della violenza passa per il true crime, ma qual è il limite etico?

15 minuti di lettura

Non troppi anni fa, Susan Sontag si interrogava sulle implicazioni etiche relative alla rappresentazione della sofferenza. Il suo caso di studio era principalmente il mezzo fotografico. “Guardare immagini strazianti del dolore degli altri in una galleria d’arte sembra una forma di sfruttamento”, scriveva in Davanti al dolore degli altri, ma aveva buone ragioni per credere che la fotografia suscitasse emozioni diverse a seconda del contesto di fruizione e dell’identità del fruitore. Viene da chiedersi che cosa direbbe oggi, se partecipasse dell’attuale sovraesposizione alla violenza.

Non parliamo soltanto delle immagini di guerra che, con estrema facilità, si accaparrano spazio sui nostri schermi, confondendosi tra una pubblicità inutile e un’offerta di vacanze che non faremo mai, ma della risonanza dei processi mediatici, ora alimentati dalla macchina dei social, e del rinnovato interesse verso i crimini violenti, che si rivelano ottimi canovacci per le serie Netflix.

Se è vero che il crimine da un lato ci repelle, dall’altro lato ci attrae, ci seduce al punto che vogliamo scoprire ogni morboso dettaglio dell’omicidio di quella famiglia in Colorado o del rapimento di una certa bambina in California. Il crescente successo del true crime ne è la prova lampante e il recente caso di DAHMER è più che è una conferma. Ognuno di noi conoscerà almeno una persona che si rilassa ascoltando podcast truculenti mentre sorseggia vino sul divano. Ma perché siamo ossessionati dai racconti di omicidi? Quanto è etico quello che sta succedendo oggi nel mondo del true crime? E che impatto ha sugli attori che ruotano attorno a questi casi?

Il true crime nella storia: da Truman Capote al CrimeCon

true crime fantasma

Il true crime ha origini remote. Oggi è un’industria prolifica, che gode del coinvolgimento attivo di molti grazie alle possibilità di interazione offerta da Internet. Tuttavia, si può trovare traccia del genere già tra il XV e il XVI secolo, parallelamente all’avvento della stampa. L’enfasi religiosa (il peccato che comporta necessariamente una punizione) e moraleggiante di questi primi esperimenti rifletteva l’epoca in cui venivano scritti. Col tempo, il focus si spostò su tematiche diverse, intrecciandosi con il giornalismo, e il sensazionalismo della narrazione aumentò.

Lo scrittore Truman Capote è spesso considerato il padre del true crime moderno: il suo A sangue freddo (1966) è un romanzo non-fiction che riporta fatti reali (un quadruplice omicidio) mantenendo una prospettiva distaccata, fornendo dettagliate descrizioni scaturite dall’assidua frequentazione tra Capote e i protagonisti delle vicende. Ci vollero più di sei anni di ricerche per completare il romanzo. Come sottolinea Jennifer Guerra per The Vision, l‘analisi psicologica dell’omicida, spesso arricchita da elementi di fiction che colpiscono l’audience, è elemento caratteristico del genere e lo differenzia dal semplice giornalismo investigativo o dalla cronaca nera.

Sul finire del XX secolo, i libri e le riviste lasciarono spazio ai programmi televisivi (America’s Most Wanted, per citarne uno), ma il nuovo millennio ha spianato la strada ai più recenti documentari e podcast. Il genere ha perduto in sensazionalismo, guadagnando in quanto a meticolosità nell’analisi dei delitti. Come ha spiegato la studiosa Taylor Meeks, il true crime ha saputo reinventarsi, passando da un medium all’altro. Negli ultimi anni, è stato un cavallo di battaglia per Netflix: provate a digitare “true crime” nella barra di ricerca della piattaforma e vi si apriranno le porte di un mondo fatto di documentari e serie televisive.

Il true crime non è altro che infotainment: come un’indagine giornalistica, si fonda su notizie reali, ma queste vengono selezionate, montate, talvolta ingigantite, per intrattenere lo spettatore. Che sia un podcast – come il celebre Serial – o una serie antologica di stampo documentaristico, il true crime attinge sempre alla verità, ma si premura di sceglierla con cura. Al crimine più banale si preferisce quello straordinario, ancora meglio se irrisolto. I fan diventano veri e propri detective che indagano via Reddit.

Se un tempo la passione per il true crime era un hobby personale, tanto da far pensare al genere come riservato ad una nicchia specifica, oggi non è così: i social hanno permesso agli appassionati di entrare in contatto, hanno offerto uno spazio dove esporre le proprie teorie, scambiarsi consigli, organizzare raduni. Intanto, si moltiplicano gli eventi a tema true crime. Nel 2017 si è tenuto il primo CrimeCon, una convention che riunisce creator e fan in incontri, conferenze, attività. In un articolo del Time si legge: “secondo Kevin Balfe, fondatore e produttore esecutivo di CrimeCon, più di 3.500 persone provenienti da 12 paesi hanno pagato fino a $ 1500 per partecipare a CrimeCon nel 2019, rispetto alle 1.000 del primo anno nel 2017”.

The true cost of true crime

true crime killer

Nello stesso articolo del Time, dal titolo “Real People Keep Getting Re-traumatized.” The Human Cost of Binge-Watching True Crime Series, i familiari di Robert Mast, vittima di omicidio nel 2015, raccontano del dolore provato alla notizia che Netflix avrebbe realizzato una docuserie sul delitto che sconvolse le loro vite. Amici e familiari si mostrarono contrari alla decisione di Netflix, ma le loro preghiere non impedirono la produzione di I am a killer (2018-2020). La serie ebbe largo successo, a discapito dei conoscenti della vittima, che furono costretti a rivivere il trauma della perdita. Quindi, qual è il costo del true crime, oggi? In un’epoca in cui tutto è velocizzato, tutto viene mandato in onda, tutto arriva ovunque? Soprattutto, c’è un limite invalicabile dettato dall’etica, dell’empatia?

Se è vero che il true crime può avere un impatto straziante sulle famiglie delle vittime (anche se talvolta sono le prime a voler far conoscere la propria storia, per sensibilizzare o addirittura riportare attenzione su casi irrisolti), è ugualmente vero che influenza gli spettatori. Sappiamo che l’audience del true crime è costituita per la maggior parte da donne, sebbene le ricerche non abbiano portato a definire chiaramente le motivazioni. In generale, sembra che la fruizione di contenuti true crime soddisfi gli spettatori perché promuove il senso della giustizia e mantiene viva l’attenzione, stimolando il pubblico all’azione (ricostruire il caso autonomamente, cercare indizi da fonti alternative…).

Nel caso specifico delle donne, Kelli S. Boling ha chiesto a 16 survivor (vittime di abusi domestici) perché ascoltano podcast true crime e ha scoperto che, oltre all’amore per una buona storia, le fruitrici cercavano il senso di comunità con gli altri appassionati e percepivano il ruolo terapeutico del true crime. Connettersi ad esperienze realmente vissute dà l’opportunità da un lato di mettersi nei panni della vittima e imparare a proteggersi, dall’altro, forse, di vivere vicariamente un’esperienza eccessiva, violenta, altrimenti impossibile (sappiamo bene quanto le donne siano limitate dal manierismo e dalla compostezza che il patriarcato impone).

Molte fan del true crime riportano di aver alzato la soglia dell’attenzione di fronte ad eventi sospetti: ora avvertono un’altra persona se vedono un furgone misterioso facendo jogging, portano con sé uno spray al peperoncino… Ricerche hanno dimostrato, infatti, che l‘esposizione alla violenza incentiva la percezione di essere perseguitati e la paura, che vanno ad aumentare la consapevolezza ma anche il livello d’ansia. Viene naturale pensare che il patto di verità stretto tra lo spettatore e il produttore del contenuto true crime, per sua natura documentaristico, accentui questa sensazione.

Se da un lato, quindi, il true crime può offrire ad una fruitrice gli strumenti per difendersi in situazioni potenzialmente rischiose, dall’altro può gravare sulla sua psiche, specie in casi di estremo coinvolgimento.

Limiti del true crime. Quanta verità c’è in questo vero crimine?

True Crime

Se le fan del true crime riescono a immedesimarsi così bene nelle vittime dei delitti è perché sono, per la maggior parte, donne come loro. Dato che i creator vogliono generare engagement, fanno determinate scelte per assicurarsi che questo avvenga. Ecco perché le vittime sono quasi sempre donne, coinvolte in efferati omicidi e casi intricati e/o poco comuni. Ecco perché l’evento deve essere scioccante: largo spazio agli omicidi, con preferenza per quelli più peculiari. Così il true crime dà la percezione che l’omicidio sia il più frequente tra i crimini, che sia addirittura in crescita, quando le statistiche dimostrano il contrario. Allo stesso modo, in USA, in realtà, vengono uccisi più gli uomini rispetto alle donne. Il true crime tende inevitabilmente a dare una percezione distorta della realtà, tanto più che chi fruisce di questi contenuti si aspetta di sentire la pura verità.

Inoltre, il true crime privilegia vittime bianche e di classe medio-alta. Sappiamo che il 13% della popolazione americana è nera e il 51% degli assassinati è nero: a questo punto, concentrarsi su vittime caucasiche è frutto di una scelta precisa. Secondo Emily VanDerWerff, il true crime tende a riguardare persone che hanno molti mezzi, e tende a riguardare i modi in cui questo si interseca in America, specialmente con razza e classe, senza riconoscerlo davvero”.

Un’altra critica che viene spesso mossa al true crime è raccontare gli omicidi disconnettendoli dalle implicazioni sociali: ciò che spinge ad uccidere è la gelosia, l’avidità, la lussuria, mai la diseguaglianza sistemica, l’abuso, la povertà, la discriminazione (se non in specifici casi, nei quali però questi elementi fanno da scusante per le azioni dell’assassino più che da causa profonda del delitto). In Fear, Justice, and Modern True Crime (2022), Dawn K. Cecil segnala che il true crime, dopo decenni, alimenta ancora l’idea che un reato sia frutto della responsabilità individuale e che il sistema stia rispondendo attivamente per risolvere la situazione, eliminando le mele marce. Secondo Anita Biressi, è proprio la funzione ricreativa dei prodotti true crime a far sì che il crimine venga isolato dal contesto sociale.

L’occasione persa del true crime

Il true crime perde così – nella maggior parte dei casi, almeno – la possibilità di ampliare i propri orizzonti, compiere un’analisi più realistica della società, offrire una contestualizzazione degli omicidi, scandagliare gravi problematiche di carattere sistemico che aumentano il tasso di criminalità. Si gioca queste occasioni perché preferisce centrare un target ormai definito e colpirlo con dettagli minuziosi e sorprendenti, di solito ingigantiti. Sarebbe interessante puntare anche sulla sensibilizzazione vera e propria, su un fine educativo.

Con il boom del true crime, i creator guadagnano e i fan sono contenti, ma – come abbiamo visto – se a volte, è proprio grazie alla dedizione di perfetti sconosciuti che i colpevoli vengono consegnati alla giustizia, altre volte le famiglie subiscono un duplice trauma a causa dalla spettacolarizzazione del loro dolore. Il divertimento del pubblico e il guadagno dei produttori vanno a discapito della sofferenza altrui. La questione etica, così come l’impatto che un documentario true crime divenuto ossessione può avere sulla salute mentale e la quotidianità di una persona, non sono da sottovalutare. La prossima volta che vi troverete a scegliere quale documentario true crime guardare su Netflix, avrete qualche domanda da porvi.


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Classe 1998, con una laurea in DAMS. Attualmente studio Cinema, Televisione e Produzione Multimediale a Bologna e mi interesso di comunicazione e marketing. Sempre a corsa tra mille impegni, il cinema resta il vizio a cui non so rinunciare.

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