Unorthodox è una miniserie televisiva scritta e ideata da Anna Winger e Alexa Karolinski. La serie è basata sull’omonima autobiografia, dal titolo Ex ortodossa. Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche, scritta da Deborah Feldman, opera attraverso cui la scrittrice, oltre ad aver subito pesanti attacchi dalle comunità chassidiche, ha messo in luce la triste vita delle donne ebree, le quali sono costrette a un ruolo marginale, alla mercè di una struttura patriarcale.
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Unorthodox è composta da una sola stagione suddivisa in quattro puntate. La serie è presente all’interno del catalogo Netflix che, così facendo, ha deciso di donare un prezioso gioiellino utile alle nostre conoscenze culturali. Nel suo complesso, l’opera diretta da Maria Schrader ha lo scopo di illustrarci una realtà tanto vera quanto nascosta, radicata all’interno di un quartiere letteralmente fuori dal mondo.
Che mondo racconta «Unorthodox»
La protagonista di Unorthodox è Esther “Esty” Shapiro (Shira Haas), una diciannovenne che vive all’interno di una comunità ebrea ultra-ortodossa di Williamsburg, un quartiere di New York. Come molte donne della sua comunità, la ragazza è costretta a un matrimonio combinato insieme a Yanky (Amit Rahav), membro di una famiglia alquanto importante.
“Costretta” ad abbracciare la propria condizione, la giovane donna viene introdotta alla vita coniugale mediante una lunga serie di regole che dovrà, nel bene o nel male, accettare. Tra queste la triste consapevolezza che lei non avrà mai più una propria libertà, poiché ridotta al dovere di moglie e madre. Sin da subito, tuttavia, Esther prende coscienza che quella vita non è per lei. Così, spinta oramai al limite, decide di scappare il più lontano possibile.
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Aiutata da un amica, la ragazza riesce a ottenere un passaporto e vola in Europa, precisamente a Berlino, luogo in cui risiede la madre. Anche lei, molto tempo prima, è fuggita a causa delle dure regole imposte dalla comunità ebraica. A ogni modo, scoperta la fuga, il marito di Esty, Yanky, insieme a Moishe Lefkovitch (Jeff Wilbusch), un figlio prodigo che provò l’ebbrezza del mondo esterno per poi “pentirsi”, avrà come compito quello di riportare a casa la giovane moglie.
L’ortodossia vista dagli occhi di una donna
Sebbene possa apparire distante a livello mentale, tanto che l’idea che traspare è quella che la nostra cultura non potrà mai capire a fondo la vita di quella comunità, Unorthodox cerca di reindirizzare l’intera vicenda in modo che vi sia uno sguardo oggettivo e che illustri, al meglio delle sue competenze, ciò che una donna deve subire in nome di una religione.
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La serie è, infatti, circoscritta all’interno di una comunità chassidica di Williamsburg. Storicamente, la suddetta comunità si trasferì nel 1905 dall’Ungheria a New York. E, come ogni congregazione, segue le rigide regole impartite dai testi sacri, tra tutti quelli della Torah. Tale rigidismo, tra l’altro, impone che i membri parlino la lingua yiddish, dialetto tipico degli ebrei orientali.
L’intera trama viene articolata per mano della protagonista, Esther. Noi spettatori, insieme alla giovane, siamo introdotti in ogni aspetto peculiare di quella vita religiosa. Viviamo con lei. Osserviamo con lei. Respiriamo con lei. Ogni elemento, ogni usanza, ogni gesto rimanda a una regola che deve essere sempre rispettata, onde evitare un ipotetico castigo (chissà, divino).
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Se per un uomo la vita comunitaria è tranquilla, per una donna si dimostra essere un vero e proprio inferno. La sua condizione viene riscritta esclusivamente a moglie e madre, sradicata da tutti i fattori che la portano ad essere donna, soggetto libero e pensante. Esther non ha diritto di fare nulla, nemmeno di avere i capelli. Non può leggere, cantare, studiare. Ciò che conta è che accudisca la casa e che partorisca più bambini possibile. Perché se sugli ebrei pesi ancora l’olocausto, compito di quelle comunità è di salvaguardare la rispettiva esistenza.
Il matrimonio come punto esclamativo
Il destino di una donna chassidica viene sancito all’età di diciott’anni. Il matrimonio viene intravisto come una rinascita, una speranza di vita. È introiettato di belle parole, di rituali, di tradizioni che nascondono una realtà ben diversa.
Esty, come tante prima di lei, viene educata alla vita coniugale. Le spiegano cosa deve e non deve fare. Come si deve o meno comportare. Ad esempio, in occasione del matrimonio è costretta a tagliarsi i capelli e indossare una parrucca. Oppure deve essere purificata mediante il mikveh, un rituale che prevede l’immersione all’interno di una vasca d’acqua.
Persino la vita sessuale è sancita da regole ben precise: primo tra tutti essere usata per scopi procreativi. Esther, tra l’altro, è ignara del suo corpo, sicché la scoperta di quest’ultimo è visto dalla giovane come un elemento di puro distacco, quasi di repulsione.
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Il matrimonio, così facendo, si mostra per quello che realmente è: una gabbia da cui è impossibile uscire. La ragazza ha gli occhi di tutti addosso, specie quando non riesce ad avere un rapporto con il marito e quindi a dargli una prole. E, una volta compiuti i doveri coniugali, assistiamo a una vera e propria violenza.
Il sapore della libertà
Non serve capire il reale motivo della fuga di Esther. La ragazza, infatti, si rende conto del fatto che quel mondo non fa per lei. Anche a costo di essere diseredata, scappa e si rifugia a Berlino. Ed è qui che comincia a vivere. Inizia a capire come è fatto il mondo, a conoscere diverse culture, a stringere amicizie. La libertà è come un dolce miele e lei vuole assaporarlo tutto.
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Gli amici che riesce a crearsi, quasi per caso come di solito accade per le grandi amicizie, sono ragazzi inizialmente increduli della sua condizione; eppure non danno molto peso al suo passato, in quanto ciò che conta è essere lì con loro. Esty capisce cosa vuol dire essere trattati da essere umano, da ragazza, da donna.
Ma vi è di più. Il suggello di tale libertà è stabilito dalla vera vocazione della giovane: il canto e la musica. Si scopre, infatti, che Esther ama il canto e suonare il pianoforte, così decide di competere per una borsa di studio, affinché possa rientrare nell’orchestra della Filarmonica di Berlino. E il simbolismo che ne comunica Unorthodox è davvero profondo.
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La voce inizialmente era repressa, negata, perché alle donne ebree è negata una simile attività. Tuttavia Esther rinasce con la musica. Durante un provino canta in modo divino. È un canto che trasmette tristezza, che comunica la sua sofferenza, le oppressioni a cui è stata soggetta. Ma è nella tristezza che trova la catarsi, la voglia di continuare a vivere e a dare un senso alla propria esistenza. Senza che vi sia un dogma a darglielo.
«Unorthodox»: aspetti tecnici
Nel suo complesso, Unorthodox illustra con devota cura gli aspetti più insiti della comunità ebraica. Gli ambienti e gli interni delle case sono curati nei minimi dettagli. Così come maniacale è la cura negli abiti: da quelli maschili (cappotti lunghi e neri e in testa il kippah), a quelli femminili (caratterizzati da abiti lunghi e foulard in testa). Lo scopo è quello di impressionare lo spettatore, aderendo alla realtà dei fatti.
Inoltre, Unorthodox mostra un estremo interesse ai punti propriamente tecnici. La luce si adatta agli stati d’animo della ragazza e dei personaggi che le ruotano attorno. Il montaggio, dal momento che la storia gioca molto sul piano del presente e del passato, non appesantisce la trama e risulta molto scorrevole.
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Ma il punto di forza della serie è l’utilizzo della lingua yiddish. I dialoghi sono sanciti dal suono rauco e gutturale del dialetto. Lo scopo è sempre il medesimo: aiutare lo spettatore a calarsi a fondo della storia, affinché tocchi con la sua pelle quel mondo, tanto distante quanto reale.
Tragici punti di contatto
A conclusione del nostro articolo, ci sentiamo in dovere di evidenziare un aspetto. Nonostante Unorthodox focalizzi la sua attenzione sull’illustrare i punti centrali di una determinata cultura, il margine che separa quel mondo dal nostro tende a ridursi drasticamente. La serie, in altre parole, assottiglia il divario che vige nelle culture, ricordandoci come, molto spesso, le condizioni di vita si somiglino: se nelle comunità ebraiche la donna è ridotta a madre-moglie, l’importanza che la figura femminile ha nella restante parte del mondo è precaria. E non parliamo esclusivamente di casi che rimandano alle tragedie legate al femminicidio, ma alla disparità che, quasi sempre, vige ovunque: dalla famiglia, al salario di lavoro; dallo sport, alla società; dall’economia, alla politica.
Unorthodox ci ricorda come la strada per ottenere una parità nei diritti, che tra esseri umani dovrebbe essere alla base, sia molto lunga e ardua. E se raggiungere tale obiettivo vorrebbe dire rompere le regole, i dogmi già stabiliti, ben vengano, allora, coloro i quali hanno il coraggio di abbattere le barriere.
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