Regista prolifico e poliedrico, contraddittorio e radicale, Jean-Luc Godard ha segnato profondamente la storia del cinema. Critico di cinema prima ancora che cineasta, Rossellini e Bergman, B-movie (i film a basso costo, solitamente polizieschi) e Alfred Hitchcock come padri spirituali, il regista entrò come un fulmine sulla scena mondiale grazie ad un esordio a budget limitato, girato in poco tempo e con pochi mezzi: l’indimenticabile À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960), film capostipite del movimento cinematografico francese Nouvelle Vague.
Il primo periodo di produzione vede l’uscita di un capolavoro ogni anno, film rivoluzionari girati in maniera unica. Dopo il 1967, la radicalizzazione maoista lo porterà ad un cinema eccessivamente sperimentale, che radicalizzerà le novità del proprio primo periodo in forme filmiche al limite della definizione di cinema. Per questo motivo, nel giorno del suo compleanno numero 89, l’analisi verterà sul film forse più intimo della sua vita, girato nel 1962 e grande successo di pubblico, Vivre sa vie.
Vivre sa vie, la trama
Il film è strutturato in dodici quadri, scene di breve durata, introdotte da didascalie, come nel cinema muto. Si segue il percorso di vita di Nanà (Anna Karina), la quale, dopo essersi lasciata con il proprio compagno , trova lavoro come commessa in un negozio di dischi. Lei porta però con sé il sogno di lavorare nel mondo del cinema come attrice, e per concretizzare questo desiderio realizza delle foto per la propria presentazione. Purtroppo la realtà rompe il cerchio dei suoi sogni: per poter pagarsi l’affitto e mantenersi viva, è costretta ad entrare nel giro della prostituzione parigina.
Nanà/Anna, anagramma della libertà
La protagonista della storia è Anna Karina, attrice danese di grandissimo valore, moglie del regista fino al divorzio del 1968. Il nome del film, oltre che un gioco linguistico, è un’evidente ripresa del romanzo Nanà, di Émile Zola, che racconta di una donna dissoluta e fragile della Parigi di fine ‘800.
Le riprese di Vivre sa vie non furono senza problemi: lo stato d’animo non ottimale dell’attrice la porterà ad un tentativo di suicidio nell’appartamento dove abitava con il marito. Effettivamente la potenza e forza della protagonista, unita all’attenta e continua focalizzazione di ogni suo risvolto psicologico, rendono l’interpretazione totalizzante. Nanà va al cinema a vedere La passione di Giovanna D’arco; l’identificazione e la conseguente commozione è immediata.
Martire come la Pucelle d’Orléans, donna povera nella società borghese, che non offre possibilità per la realizzazione d’un sogno, dove gli sguardi dei prelati sono identici agli sguardi degli uomini parigini che comprano i corpi come merce, uniti nell’esprimere un’unica risoluzione: la condanna.
Ma Nanà si appella alla responsabilità individuale come proprio marchio di libertà, nonostante un destino beffardo e contraddittorio dal quale non si può fuggire:
«Credo invece che siamo sempre responsabili delle nostre azioni. E liberi. Alzo la mano, sono responsabile. Giro la testa a destra, sono responsabile. Sono infelice, sono responsabile. […] Voler evadere è un’illusione».
Il linguaggio come Resurrezione
Il secondo protagonista del film è il linguaggio: nell’undicesima scena Nanà si intrattiene, in un bar, in una conversazione con Brice Parain, filosofo del linguaggio, ed è un dialogo dall’alto contenuto filosofico. Lei vorrebbe tacere, vivere la vita in silenzio, ma è il filosofo stesso che le indica l’impossibilità: «Dobbiamo pensare. Per pensare, dobbiamo parlare. Non si pensa in altro modo. E per comunicare, bisogna parlare. È la vita umana».
Il desiderio di silenzio è desiderio di autenticità, perché parlare spesso è mentire, tradire l’essenza delle cose. Ma parlare è anche creare una seconda vita, diversa dalla materialità delle cose, qualcosa che si conserva nei secoli, come un dialogo di Platone ancora disponibile alla lettura e alla riflessione. Parlare per esprimersi ed esprimere la propria identità agli altri, per «prestarsi agli altri e darsi a sé stessi», come recita l’incipit di Michel de Montaigne ad inizio film.
Linguaggio è narrazione: e qui entra in gioco il regista, perché il proprio stile cinematografico, la propria novità registica, è stata la creazione di un nuovo linguaggio, qualcosa di rapido ed immediato, semplice ma profondo, primi piani e battute rapide, dialoghi filosofici e volti silenziosi. Il grande debito che dobbiamo a Godard oggi lo possiamo trovare nella riflessione di Vivre sa vie: se senza linguaggio non possiamo vivere; che ognuno trovi la propria via d’espressione, unica e libera.
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