Sono passati alcuni giorni dall’anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia de La meravigliosa storia di Henry Sugar e tuttora rimane in testa alla classifica dei film più interessanti. Nella recensione abbiamo descritto il mediometraggio come “piccolo ma ricco”; Wes Anderson è in costante “ricerca di un’espediente surreale capace di snaturare l’elemento inquadrato, al punto di innalzarlo”.
Il regista della simmetria e della palette di colori pastello accesi più riconoscibile del cosmo filmico, cerca come sempre la perfezione geometrica nelle sue opere. Lo spettatore sarà abituato, di conseguenza, a immaginare il set di Wes Anderson come uno spazio organizzato e pulito, una perfetta replica speculare delle sue ambientazioni. Immaginate, tuttavia, lo stupore dei presenti quando Anderson in persona smentisce proprio questa ultima affermazione.
Wes Anderson e come gestire il caos produttivo di un set
Lo abbiamo incontrato alla sua masterclass qui al Lido, curata e mediata da Giulia D’Agnolo Vallan; e a tutte le domande in merito al “caos produttivo” che si genera inevitabilmente su un set – soprattutto in quelli difficili come i suoi – ha sempre risposto nello stesso modo: nonostante tutte le previsioni e l’organizzazione che un regista può avere, sarà sempre l’inaspettato a prevalere nell’oggettiva messa in scena di un film.
Anche per il regista texano, l’improvvisazione va ben oltre il rigore millimetrico con cui si studia le scene. Ed è, infatti, l’(im)previsto che permette al film di formarsi in un modo unico e inaspettato. Spiega Anderson: “è come se il pianeta Terra volesse dire la sua in merito, partecipare alla realizzazione del film”. Per capirci meglio, prendiamo un esempio che lo stesso Anderson ha fatto: se si fa un film ambientato al mare, non è detto che in tre mesi di riprese capitino tutte giornate di bel tempo; anzi, soprattutto in contesti naturali, è difficile trovare un’intesa con il meteo: se piove, diluvia, e fa tempesta bisogna adeguarsi.
Tutta questione di legami cinetici
Anche questo elemento, d’altronde, permette ai film di Anderson di raggiungere quel tatto umano – come definito da Vallan – che mette in connessione l’audience e il regista. Ogni film è finto, ricorda però il regista, una macchina illusionistica che non è vera neanche per un secondo. Ed è proprio questo aspetto che secondo lui lega i film allo spettatore: è la connessione diretta tra la finzione, una macchina artificiosa priva di umanità, e le emozioni provate dal pubblico in sala.
A questo si aggiungono, tra l’altro, le connessioni monografiche, che per Wes Anderson sono ancora una volta involontari e non previsti. Non esiste un concetto di fondo che connette un film : il solo legame presente tra i film di un regista è l’autorialità del regista stesso. Essa, se si vuole chiamarla autorialità, crea una sorta di legame cinetico con il pubblico. Wes Anderson insiste, in fondo, nel dire che non pensa mai ai suoi film come materia organica univoca, bensì come opere distinte e autonome. Basti pensare che La meravigliosa storia di Henry Sugar è il primo di una trilogia anacronistica di cortometraggi tutti collegati tra di loro, ma che sostanzialmente possono essere visti anche in maniera indipendente.
Qual è il legame tra gli autori e i “suoi” attori?
In un campo lavorativo come quello della produzione cinematografica, dove la gran parte dei registi fa tantissimi film senza un apparente legame narrativo, sorprende come Wes Anderson si sia sempre rivolto a un ristretto gruppo di attori (soprattutto star del cinema nell’ultimo periodo). Si chiamano attori feticci, e per gli autori costituiscono un elemento fondamentale nella produzione di un film. Perché, ci ricorda Anderson, c’è un senso di “comfort” quando lavori con qualcuno che sai di rispettare e di cui sai di fidarti.
È anche una questione di principio: “le persone più importanti non sono quelle più talentuose. Sono quelle che tornano dopo aver già lavorato su un set con me”.
Wes Anderson e i suoi consigli ai giovani registi
Tuttavia, è lui stesso che afferma di trovare confortante, soprattutto all’inizio della sua carriera, il lavoro con i non-attori. Valorizzare questa categoria, che nella stragrande maggioranza dei casi è composta da giovanissimi e aspiranti nel settore, permette di aprire le porte a un mondo diverso, fatto di non-attori che poi, a tutti gli effetti, recitano meglio di molti altri.
E a qualche timido ma intraprendente filmmaker che si fa avanti chiedendo consigli, Wes Anderson risponde molto chiaramente: “la cosa più importante è portare sempre con sé le persone che credono nel tuo lavoro e amano stare in tua compagnia”. Non ci sarà mai un momento, ovviamente, in cui non si sarà insicuri del proprio lavoro. Allo stesso screening test di Bottle rocket, la maggior parte del pubblico aveva lasciato la sala durante la visione (Anderson aveva pure contato i presenti e ci fornisce i dati: delle 380 persone, ne sono rimaste poco meno di 100).
“Tuttavia sapevo di star facendo un buon lavoro, e stavo soprattutto in compagnia di quelli con cui volevo lavorare”. Una memo da appiccicare in fronte, per ricordarsi sempre del grande cinema come quella invenzione che unisce, sul set e in sala. Gli spettatori migliori, infatti, sono quelli ai festival, dove in sala si concentrano per la maggior parte studenti e cinefili. Secondo Anderson, è proprio in quelle proiezioni che “ci si diverte”. Semplicemente Wes Anderson: volto umile e talentuoso del cinema mondiale, che non smetteremo mai di amare.
Immagine in copertina di Lorenzo Carmellini
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