Come in un film di Cronenberg, Lav Diaz collega marcio dell’anima a decomposizione del corpo. L’anima è del singolo, ma la fonte del contagio è un paese senza coscienza. “Vaffanculo alle Filippine, perché danno spazio a criminali di merda come noi due!”, urlano Hermes (John Lloyd Cru) e Primo (Ronnie Lazaro) nel finale di una tragedia senza catarsi. Quando tutto finisce è l’indifferenza generale ad arrestare la possibilità di redenzione. When The Waves Are Gone è più di uno sguardo pessimista. I suoi bianchi e neri in uno straordinario 16mm sono gli estremi di un discorso accurato. Utilizza il genere, richiama ogni cinema, ma non perde mai le fila di un’accusa specifica: le Filippine di Duterte, ex presidente dimessosi nel 2016 dopo anni di crudeltà, sono un corpo in putrefazione.
L’insieme corrotto priva il film di liberazione, costretto a sacrificare i suoi personaggi senza che il marcio possa esacerbarsi. Il duello tra il Detective Hermes e l’ex compagno Primo è diretto con l’epicità di genere, ma la comparsa di un gruppo di biciclette accanto ai corpi stesi a terra spezza l’illusione del noir. In un passaggio quasi comico – black humor di Lav Diaz – richiama l’efferata realtà che sconfina lo schermo.
When the Waves are Gone, violenze come sistema
L’assenza di Lav Diaz dal concorso di Venezia79 non si spiega. When the Waves Are Gone vive di immagini spezzate e contigue, simili ai suoi protagonisti. C’è l’oscurità che impedisce di dare un volto ai personaggi, poi la trasparenza che li incorpora nello sfondo bruciato dalla luce. Una regia che incide un noir classico, chiuso su un molo come fosse la San Francisco di Bogart. Anche Passay, “città della morte” filippina, è attraversata dalla nebbia fitta. I fumi dei locali attraversano le strade e i due protagonisti vivono una schizofrenia che si manifesta in danza incontrollata. Ridiamo, commedia nera a cui Lav Diaz si dedica con entusiasmo che non smentisce la parabola nera di un paese i cui corpi lasciati per strada sostengono cartelli come monito e minaccia: “Sono un drogato non fare come me”. Lav Diaz mette da parte il genere quando è tempo di mandare a fanculo Duterte. Non media i nomi, non sfrutta metafore. Quando serve, senza mai eccedere la forma del racconto, alza il dito medio e firma in 16mm un espressione libera dal fascismo filippino e mondiale. I soggetti di When the Waves Are Gone sono espressione capillare, elementi di sistema, frutta di un cesto abbandonato al sole tra danze aeree di mosche nere.
Primo Macabantay è uscito di prigione e cerca vendetta. L’ex collega Hermes l’ha condotto dietro le sbarre, dove ha incontrato il volere di Geova. I personaggi dividono le scene. Lo sguardo crea legami tra due opposti che si rivelano identici. I loro gesti sono tentativi falliti, coscienze che hanno compreso ma non si elevano, appesantite dalla corruzione. Primo vorrebbe salvare le anime in nome di Geova, ma nel forzare al battesimo una prostitua ne causa la morte. Dimostra gentilezza, ma poi picchia chi gli chiede di non battere i piedi per terra. Lav Diaz affida ai protagonisti un gesto rituale, forse unico momento di unità tra corpo e coscienza. Hermes e Primo ballano, ma ballano anche le prostitute invitate nella stanza d’hotel dell’ex carcerato. Ballano senza musica, chiudono gli occhi a cercare le note. La danze è insieme del corpo, elemento assente in un film che accentra le nevrosi di due protagonisti.
Individuo, società, sistema, corpo ed essere umano. Fauna e flora di una giungla d’asfalto intrecciata nel male. “La cultura dell’omicidio sta diventando il tuo sistema”, sistema di potere, sistema nervoso. La drammaturgia di Lav Diaz è organismo vivente. Uno squilibrio chiama il corpo all’allarme. La violenza dei protagonisti è combinata all’indifferenza dei personaggi. Il marcio del protagonista si abbina alla corruzione dell’anima. Tutto è conseguenza, il disfacimento del vivere armonioso in un contagio comune che When the Waves Are Gone esprime per contrasti forti.
La detection protagonista di When the Waves are Gone è un disastro esistenziale. Il miglior detective di Manila – tutti lo ripetono con un’insistenza comica – fallisce nell’indagare se stesso. Quando Hermes inizia a dubitare delle azioni svolte come braccio armato del governo il corpo inizia ad appassire. La psoriasi che gli sfoglia lo sfoglia – immagine di cui il fantasy ha fatto usi incredibili nella rappresentazione della morte dell’anima – manifesta un’umanità perduta. Il suo volto spaventa i passanti, gli stessi che indifferenti evitano i cadaveri per strada.
Le onde alte del mare su cui affaccia la casa in cui Hermes vive l’isolamento minacciano di divorarne le mura. Giorno dopo giorno si sgretola un pezzo. La sua coscienza vacilla, ma la salsedine non guarisce le escoriazioni e porta sabbia nera su un patio che non ha più senso spazzare. Hermes Papauran è stato coinvolto negli omicidi civili delle notti filippine. L’amico fotografo gli mostra i risultati di azioni sciagurate: come la Pietà di Michelangelo una ragazza regge il corpo del compagno.
When the Waves are gone è circoscritto e universale, storico e duraturo. Lav Diaz dipinge i contrasti in scene lunghe, fedeli alla tradizione del suo cinema. Abbiamo il tempo di memorizzare i luoghi, imparare gli oggetti. La finestra dietro a Primo alterna oscurità e luce mentre il suo corpo danza sconnesso, una Zumba inopportuna e perfetta. I piani sequenza sfogliano i personaggi come un libro vecchio, capace di sgretolarsi in un istante.
Il duello finale di When the Waves are Gone è l’incontro di estremi, la sintesi perfetta. Campo e controcampo: prima è troppo buio, poi è luce implosa. Nel noir di cui Lav Diaz veste un insostenibile reale, l’immagine solleva i personaggi dal tempo. La tragedia non è compiuta, la catarsi è impossibile. Per un attimo soltanto, intensificato in una scena che schiaccia lo spettatore sullo schermo, Lav Diaz ci convince che il cinema possa guarire anche il corpo decomposto di un protagonista che condivide la malattia di un paese dall’anima corrotta. Lo sguardo che si dedica a When the Waves are Gone è premiato da immagini che restano, storie di un luogo si fanno strumenti universali, eredità di una drammaturgia antica capace di segnare le epoche.
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