Molte cose sono state dette su Xavier Dolan: vincitore di svariati premi, l’espressione che sentiamo più spesso riferita al giovane regista canadese è enfant prodige. Un’etichetta che non gli si vuole togliere, nonostante i suoi trentadue anni compiuti oggi.
Le motivazioni per parlare di prodigio, in effetti, ci sono: in dodici anni Xavier Dolan ci ha già regalato otto lungometraggi sorprendenti, il primo dei quali (J’ai tué ma mère) girato all’età di soli diciannove anni.
Nato a Montréal da un attore e un’insegnante, Xavier Dolan inizia la sua carriera con la recitazione, per poi debuttare alla regia nel 2009 col sopracitato film, con il quale si aggiudica tre premi al Festival di Cannes. Da allora mantiene un alto ritmo produttivo, girando film a intervalli di massimo due anni l’uno dall’altro.
Oltre alla prolificità, Dolan ha dalla sua anche un notevole eclettismo: il grado di controllo sulle proprie opere è alto, infatti il regista è anche sceneggiatore, spesso attore coprotagonista, produttore, montatore, costumista e scenografo. Un artista completo e poliedrico che, sull’onda del momento, sta per approdare, come molti altri registi cinematografici, al piccolo schermo con The Night Logan Woke Up; nell’attesa della serie, in uscita nel 2022, vediamo cosa rende questo cineasta una figura così particolare nel panorama odierno.
La famiglia secondo Dolan
Dicevamo della sua opera prima, J’ai tué ma mère. Tratto da una sceneggiatura parzialmente autobiografica scritta dal regista all’età di sedici anni, il film getta le basi per quelle che saranno poi le tematiche fondamentali di tutta l’opera di Dolan.
Nello specifico, un rapporto conflittuale con la madre, che si configura nell’universo dolaniano come creatura ambivalente, distruttiva ma amorevole, impulsiva ed estremamente materna al contempo. Nei film di Xavier Dolan il padre è assente, e la mancanza della sua figura viene compensata da una madre ingombrante con la quale si instaura un rapporto quasi morboso. Lo vediamo in J’ai tuè ma mère come nel successivo Mommy, che nel 2014 è valso all’artista il Premio della giuria a Cannes; la madre è sempre l’attrice Anne Dorval, che impersona in entrambi i film donne esuberanti, fragili, a tratti inadeguate ma in ogni caso intensamente presenti e influenti.
Il tema della famiglia viene ripreso nel 2016 con È solo la fine del mondo, il cui protagonista (Gaspard Ulliel) si trova nuovamente, dopo dodici anni, nella casa natale, nella quale emerge la problematicità dei rapporti interni ad un nucleo familiare che, se non è disfunzionale, viene di certo percepito come respingente e opprimente, complice l’ambientazione casalinga in cui il film è girato nella sua quasi totalità.
Un’arte vissuta: sesso e omosessualità
Altro tema caro a Dolan è l’omosessualità; anche qui si parla di vita vissuta, considerato che il regista è dichiaratamente gay. Nel suo secondo film Les amours imaginaires (2010), l’artista tratteggia col suo stile poetico un triangolo platonico, e gli effetti che può avere, su un ragazzo e una ragazza legati da amicizia, l’apparizione di una figura ambigua ed efebica, eterea in quanto idealizzata; qui come in Matthias & Maxime, il suo ultimo film uscito nel 2019, Dolan è uno dei due protagonisti.
Matthias e Maxime sono altre due dimostrazioni di amicizia incrinata da una graduale presa di coscienza in ambito sessuale: l’omosessualità è negata, nascosta, come in Tom à la ferme (2013) che vede ancora il regista nei panni del protagonista in un’agghiacciante e lucida rappresentazione delle relazioni abusive, e come in La mia vita con John F. Donovan (2018), in cui la rimozione della propria reale identità scaraventa il coprotagonista (Kit Harington) in un vertiginoso abisso di sofferenza.
La sessualità è quindi pregnante e problematica in Dolan, portatrice di dubbi ma anche della coraggiosa consapevolezza dell’impossibilità di fingersi altro da sé; consapevolezza che trova il suo culmine in Laurance Anyways (2012), racconto di dieci anni di vita di una donna transgender (Melvil Poupaud) e del suo percorso di transizione, ma soprattutto della travagliata storia d’amore con l’amata Fred (Suzanne Clément): un amore vacillante, terrorizzato, ma inestirpabile anche di fronte al cambiamento fisico.
Perché in Dolan sono proprio i rapporti a fare da protagonisti; i giochi di sguardi tra i personaggi, i non detti e i sentimenti urlati, i gesti abortiti, quelli solo immaginati. Ed uno dei grandi pregi delle sue storie è quell’evidente sincerità che un artista può trasmettere solo romanzando le proprie esperienze.
Tra eccessi e musica pop
L’identità di Dolan trae la sua forza in grande misura anche da uno stile registico immediatamente riconoscibile. Tra i suoi tratti ricorrenti ricordiamo l’uso del ralenti, atto a sottolineare lo stato d’animo dei personaggi come a volerne fermare l’essenza, per osservarne la poesia; l’attenzione ai dettagli, ai particolari, ai primi piani è un altro indice di questa volontà indagatrice. Tra una scena e l’altra troviamo spesso inquadrature a schermo nero, che evidenziano la distanza, i vuoti, i cortocircuiti emotivi di cui sono vittime i personaggi.
In Xavier Dolan, i momenti più significativi hanno ben poco di realistico da un punto di vista visivo: la costruzione delle scene più belle si fonda su scelte come due mani che allargano un formato soffocante, una cascata d’acqua che dal soffitto scroscia addosso a un’amante pentita, il disperato inseguimento di una madre irraggiungibile che fugge nel bosco in abito da sposa. Scelte che privilegiano una visione soggettiva della realtà, conferendo alle scene un lirismo commovente.
La riconoscibilità dello stile del regista sta anche nell’impiego di attrici feticcio: le già citate Anne Dorval e Suzanne Clément, presenti almeno nella metà dei film, ma anche Monia Chokri.
La musica, spesso diegetica, ha la funzione di trasportarci nell’universo dei protagonisti, quasi sempre giovani; è, quindi, musica pop, orecchiabile e familiare alla maggior parte degli spettatori. Abbondano le tracce elettroniche, che accompagnano le frequenti scene di danza: i personaggi di Dolan fremono di una vitalità che esige di essere espressa ballando, trovando una propria dimensione pura e libera dalle convenzioni sociali.
Il cinema di Xavier Dolan, sintomo di una generazione
Una regia mai sobria, dunque, ma sfacciata, traboccante di passione e urgenza, di gioia e malinconia; un uso del colore che, ugualmente, accantona il realismo in favore dell’espressione dell’interiorità mediante tinte accese ed eloquenti. Tutto è enfatizzato, esasperato; perché quello di Dolan è il cinema arrabbiato e delicato di una giovinezza confusa, ma decisa ad assecondare ad ogni costo la propria insopprimibile pulsione vitale.
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