Turchia, un dormitorio, ragazzi e ragazze, educazione religiosa, educazione violenta, pubertà. Yurt è un film che racconta di tutto questo, che tiene insieme tutto questo, che tiene insieme tanto attraverso la crescita di un ragazzo: Ahmet. È il 1997, il giovane vive in una nazione scossa dagli asti tra fondamentalisti religiosi e pro-secolarizzazione. Problemi politici che rimangono sfuggevoli alla vita del ragazzo.
Tutte le fotografie presenti nell’articolo, compresa l’immagine di copertina, sono state scattate dalla fotografa Stephanie Cornfield
Yurt racconta le contraddizioni
Vivendo in un dormitorio che fa dell’educazione islamica il suo centro, Ahmet (Doga Karakas) rimane tagliato dal mondo esterno, che conosce solo quando va nella scuola pubblica e nelle rare visite che fa a casa dei genitori. Questi sono di un alto livello economico-sociale, il padre, profondamente credente, impone al figlio di vivere nel dormitorio, sinceramente convinto che quella sia l’educazione migliore.
Ma “impone” non è il termine corretto. Poiché il padre (interpretato da Tansu Biçer) è sicuramente un uomo che accentra il suo volere sul figlio, ma lo fa perché crede che sia la cosa migliore. Vuole molto bene al ragazzo, più che imporgli il dormitorio lo convince che quella sia la scelta giusta. Questo esempio mostra la capacità più notevole e interessante di Yurt: riuscire a tenere insieme aspetti opposti, mostrando tutte le facce della medaglia, con le varie contraddizioni che portano. Il padre ha sì dei modi egoistici, rigidi, predominatori, ma è anche amorevole verso il figlio, ci tiene a lui, lo aiuta, crede di star facendo il suo bene.
Ahmet, convinto del dormitorio, si impegnerà totalmente in esso, dando il massimo in tutte le sue attività, nello studio, nella religione, nel rapporto con gli altri. Proprio in quest’ultimo aspetto fa più fatica, esclusa una grande amicizia con un altro giovane, Hakan. Questo è un ragazzo di estrazione sociale opposta, i due vivranno un legame sempre più stretto e intimo, che li porterà a decisioni opposte a quelle imposte, anche con la forza, dal dormitorio.
Una rappresentazione notevole
Quasi integralmente in bianco e nero, Yurt è stato presentato nella sezione Orizzonti della scorsa Mostra del cinema di Venezia. Primo lungometraggio del turco Nehir Tuna, che riprende un momento della sua stessa biografia. Il regista ha veramente passato cinque anni della sua infanzia in un dormitorio, così ha voluto “portare la mia esperienza personale per raccontare una storia che va oltre la lotta politica tra religiosità e secolarismo, trasmettendo l’isolamento e la pressione che Ahmet deve affrontare nel tentativo di soddisfare le aspettative della sua famiglia e il suo bisogno di appartenenza”, come commenta sul sito della biennale.
Il bisogno di appartenenza è tipico di un giovane adolescente, qui è il motore della narrazione. Il giovane è turbato tra le spinte opposte che il film racconta: tra la sua voglia di scoprire e il dormitorio chiuso al mondo, tra la fedeltà ai dettami imposti alla scoperta della propria sessualità, tra la famiglia e il proprio io. Come dice il regista, tutto questo è filtrato e scaturito dall’isolamento del protagonista, che vive un vissuto castrato. Anche quando prova a dedicarsi a ciò che lo circonda non riesce a nascondersi una spinta verso l’altro, verso l’esterno.
Un fuori che non riesce ad arrivare al protagonista come lui vorrebbe, bloccato dalle barriere fisiche e spirituali del dormitorio. La pellicola rappresenta molto bene tutto ciò con grande capacità e sobrietà, in maniera chiara. Giocando con l’architettura dell’edificio in questo, le porte e le finestre in particolare, nascondono al mondo esterno ciò che si vive all’interno e viceversa.
Questo reggere gli opposti, tuttavia, risulta ripetitivo nella parte centrale dell’opera. Qui il film sembra girare troppo intorno a questa struttura, sicuramente per evidenziarla meglio ma sacrificando la narrazione. Di per sé questo non è necessariamente un difetto, ma lo diventa nel suo stridere con l’ultima parte del film. Un interessante cambiamento avviene, l’evoluzione avanza velocemente, troppo se appunto la si considera inserita nella struttura narrativa. Non che risulti irrealistico, ma forse troppo repentino in un’opera che prima si prende i suoi tempi.
Una nazione, un dormitorio, un popolo?
Di grande pregio è sicuramente lo sguardo che permette di far fare allo spettatore sulla Turchia del tempo. Criticata ma non disprezzata, questa nazione era molto diversa da come sta andando ora. Le spinte alla secolarizzazione erano in un contesto che le favoreggiava, Atatürk era il modello massimo. Un tipo di mondo che il regista critica, assimilandolo ai responsabili del dormitorio, raccontandolo come un culto cieco che si sostituisce a un altro culto.
Infatti Yurt non critica l’Islam o il laicismo in sé, ma critica l’adesione che impone, come chi aderisca venga accecato, come il protagonista che vede il mondo esterno solo a frammenti, in una routine in cui se qualcosa ne esce viene duramente rimesso a posto.
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