Durante la Seconda serata di Sanremo 2022, l’Ariston ha accolto uno speciale e attesissimo “ospite d’onore”: Checco Zalone. Se la passionale performance di Blanco e Mamhood con il brano Brividi sul ci aveva fatto ben sperare per questa nuova stagione delle voci, in cui anche gli uomini si dichiarano amore a vicenda, la puntata di ieri ha invece lasciato una ferita profondissima nell’animo italiano dei sommessi, gli “altri”, quelli a “metà”: la categoria transgender.
Sui social impazzano le aggressioni a chi denuncia, a chi ha espresso il grave disagio per l’incapacità di digerire l’uovo sodo propinato da Zalone.
Ma cosa è successo davvero? Indaghiamo drammaturgie e metodologie dello sketch portato da Luca Medici, conosciuto per il personaggio fittizio Checco Zalone, sul palco dell’Ariston.
Primo atto: Perché non riusciamo a stare zitte/i e buone/i
Gli occhi sono tutti puntati sulla scalinata più ripida e famosa d’Italia, in attesa del grande ingresso di Checco Zalone, ma del comico non c’è traccia. Amadeus lo cerca ma Zalone è lì nel pubblico, insieme a tutti gli altri italiani, insieme a tutti quelli a cui è indirizzato lo spettacolo, lo dice, e se ne vanta: “questa è la mia gente”. Come un messia tra i suoi fedeli scende dalle scale dei “normali”, di quelli che lo show lo guardano, ma con una differenza fondamentale, Zalone è lo show, e la sua è senza dubbio una posizione di privilegio, la posizione di chi ha la parola e dovrebbe saperla usare in qualità di comunicatore. Applauso infinito, colmo di gioia. La scalinata è delle star, ma lui è più star delle star, e quindi passa da dietro.
Secondo Atto: solo le donne piangono
Pantomima sulla commozione, sul sentimentale. Derisione del dolore? Ma no dai, ironia che affonda direttamente le radici in quella drammaticità stigmatizzata e intrinseca che appartiene alla cultura italiana.
Quale miglior modo per introdurre la questione “donne di Sanremo”: il pianto, perché per molti il pianto è ancora sinonimo di donna. Già, quest’anno è l’anno delle donne importanti, a condurre grandi figure femminili del cinema, del teatro e dello spettacolo, che per ora non sono ancora riuscite a brillare, come Ornella Muti, limitata a confermare la sua vicinanza ai grandi uomini del cinema.
Cosa manca? La sciacquetta, “la scema” dice Zalone, quella bella che ha poco da dire. Amadeus rilancia, vantandosi di aver premiato la bravura, la cultura e il talento delle donne, come se questi fossero gli unici criteri per poter decretare una donna come degna di attenzione.
Da questo momento entrano in gioco due personalità a confronto: quella prontamente buonista ma poco attuale di Amadeus, che per mezzo di un linguaggio non parafrasato si scaglia in difesa dell’importanza del ruolo femminile nella società. E quella sferzante e iconoclasta di Zalone nei confronti di quello che oggi, per il politicamente corretto, è diventata la difesa della parità di genere.
Zalone rincara la dose deridendo la falsità del linguaggio puritano difensore delle donne di Amadeus “lui è un uomo di un’altra epoca, non possiamo condannare questo suo maschilismo endemico”. Amadeus ride lasciando l’intera scena a questo cabaret dell’indecenza moderata dalla scusante della comicità.
Il testo non lascia scampo: usare Amadeus per raccontare una storia attuale, quella dell’ignoranza linguistica difesa con ardore, la triste storia della morte dell’autoanalisi, che in fondo è il principio su cui si salda la costruzione del senso critico.
Terzo (e per fortuna) ultimo atto: peli, pomi d’Adamo e prostituzione: la transessualità raccontata ai grandi.
Amadeus è il narratore di una storia, un semplice illustratore degli eventi perché a dirigere le risa dello spettatore sono le distorsioni linguistiche di Zalone. Una storia fatta di stereotipi, che distrugge anni di lotte di una categoria marginalizzata rafforzandone lo stigma.
Le luci si abbassano, l’Ariston si riempie del tradizionale elemento musicale disneyano e l’atmosfera si fa pregna di aspettative. Cerette, peli, pomo d’adamo e prostituzione dominano questo racconto transfobico alimentando pregiudizi da sempre affibbiati alla categoria in questione. Ad aumentare l’indignazione è l’integrazione della componente razzista. Zalone scimmiotta un accento brasiliano e così facendo associa tre stereotipi storici: “persona transgender”, “brasiliana” e “prostituta”. Questi i tre elementi messi in consonanza da Checco Zalone, che spinge alla risata più semplice e impedisce ogni riflessione su un limite culturale ancora marcato e confermato dalle risate in sala (e in salotto).
Tiriamo le somme
Dobbiamo sempre domandarci quale sia lo scopo di ogni intervento, e in questo caso quale era? Ribaltare gli stereotipi? Caricaturizzare gli artefici dei promotori di questo incessante turpiloquio indirizzato alla categoria marginalizzata? O forse scomodare i paradigmi dei poteri forti?
Probabilmente lo scopo di Zalone era quello di portare alla Rai uno sketch che fosse capace di scucire i bottoni delle giacche gessate della tv statale. Forse l’obiettivo era di smuovere gli animi dei sostenitori dei valori tradizionali, ma l’ampio apprezzamento ottenuto dagli esponenti della destra ha di fatto annientato la portata e probabilmente l’intento rivoluzionario del comico (si guardi ai tweet di Matteo Salvini e Giorgia Meloni).
Il punto è che esiste la possibilità di fare ironia su questo argomento, ma sarebbe il caso di lasciare la parola ad un elemento appartenente alla categoria di riferimento. Questa parentesi comica non è dunque fruibile da tutti, perché di fatto vi è solo un ricalco dello stereotipo vigente e la componente comica è ritenuta tale soltanto da chi la vede (e la deride) da fuori, e non per chi la vive. A godere dello show come sottolinea Valeria Fonte “sono le persone che non vivono la transfobia, quindi gente che non ha il diritto di definire cosa sia o meno transfobico. La violenza transfobica in tv viene lasciata passare per genialità, un modo molto comodo per discriminare senza pagarne il prezzo”.
Un’altra occasione persa perché sarebbe potuto essere un Sanremo più attuale, uno di quelli che veramente punta la lente su di sé, per analizzarsi, e forse, chi lo sa, per riconfigurarsi.
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