Netflix catapulta se stesso e i suoi spettatori direttamente negli anni ’90 con That ’90s Show, Sitcom in dieci puntate e sequel del celebre That 70’s Show, che ha fatto la storia del suo genere, andata in onda tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000. Disponibile dal 19 gennaio scorso, la serie si dimostra essere un mix tra sorpresa e nostalgia, ma con un pizzico di ripetizione e banalità.
That ’90s Show, quella irrefrenabile voglia di ritorno al passato
Quando si decide di mettere mano ad un prodotto – cinematografico o seriale che sia – che è entrato nell’immaginario del pubblico diventando un vero e proprio cult, la sfida è pericolosa e meticolosa al tempo stesso. Ma si sa, Netflix vive di sfide e, anche se spesso i risultati non si dimostrano essere quelli aspettati, non si può dire che almeno non ci abbia provato. Questo è quello che accade con That ’90s Show che tenta la doppia sfida di riportare alla ribalta un genere ormai mutato come quello delle sitcom, ma al tempo stesso essere sequel di una serie che di quel genere ne ha cavalcato l’onda.
Siamo nella metà degli anni ’90. La giovane Leia (Callie Haverda), figlia di Donna (Laura Prepon) ed Eric Forman (Topher Grace), si appresta a passare l’estate a casa dei nonni Red e Kitty Forman (Kurtwood Smith e Debra Jo Rupp). Leia fa i conti con le prime esperienze sia in amicizia che in amore, tra situazioni surreali e risate, il tutto condito con il ritorno di alcuni personaggi provenienti direttamente dalla serie originale.
That ’90s Show è un invito al ritorno al passato, alla commemorazione delle vecchie glorie, che decide di mettere in scena utilizzando però una formula poco convincente in grado, da un lato, di far sorridere coloro che sono cresciuti con il suo predecessore, ma facendo storcere il naso alle nuove generazioni che non apprendono a pieno lo spirito della serie.
That ’90s Show, un impianto lasciato a metà
La grande pecca della serie è quella di essere lasciata a metà in moltissime delle sue componenti. La narrazione è poco convincente e non si trova sviluppata a pieno, cadendo quindi nella trappola della ripetitività, facendo (forse troppo) affidamento a un passato che si scontra con gli ideali delle nuove generazioni, di certo non più abituate a prodotti del genere. Ecco, quindi, che la sfida di Netflix si blocca ancora durante l’elaborazione del suo lavoro, portando a termine un prodotto finale dalle grandi e potenti aspettative, in malo modo e perlopiù frettolosamente.
Tematiche che potevano essere approfondite più a fondo – considerate soprattutto gli anni in cui la serie è ambientata – lasciano a desiderare per il modo in cui vengono trattate, così come l’arco narrativo dei protagonisti. Nessuno di loro riesce a imporsi nella narrazione, la loro storia non viene quasi per nulla analizzata, portando come risultato un ritratto poco convincente dei volti con cui lo spettatore dovrebbe invece familiarizzare. Dieci puntate risultano poche in funzione del messaggio e della serie stessa, ed è proprio questa uno dei grandi punti deboli della sitcom.
That ’90s Show è un genere ormai passato di moda
Le sitcom sono state il gioiello del format televisivo per anni. Il loro successo è stato indiscusso e intramontabile fino agli anni ’10 del 2000, ma la cosa ha cominciato a scemare e poche sono state quelle che hanno opposto resistenza a un fallimento ormai annunciato. Per questo il genere delle sitcom è ad oggi uno dei generi più difficili da gestire e da calmierare nel grande mondo del binge watching; That ’90s Show è proprio questo, un prodotto che poteva riportare alla ribalta un intero genere ma che purtroppo non riesce nell’impresa.
La comicità troppo forzata non si sposa bene ne al tempo della storia ne al periodo in cui la storia viene proposta, e nemmeno i personaggi appartenenti allo show precedente riescono a risollevare le sorti di un prodotto già condannato all’oblio. Nei giorni immediatamente successivi al rilascio delle puntate, la serie non è riuscita a raggiungere nemmeno la Top 10 delle serie più viste sulla piattaforma, confermando quindi una prassi che già si poteva immaginare. Un vero peccato ma anche un vero spreco sia narrativo che di potenziale.
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