Scomparire. Un verbo inusuale da pronunciare per chi lavora con le immagini. Eppure quello che sembrava un paradosso, ossia raccontare di una scomparsa attraverso una videocamera, è diventata «una contraddizione che è tante cose». A parlarci di questa meravigliosa contraddizione è Beniamino Barrese, regista del docufilm La scomparsa di mia madre, che vede come protagonista l’ex modella Benedetta Barzini, sua madre.
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La scomparsa di mia madre è disponibile su Sky go, Chili e sui canali Vimeo del cinema di Milano, di Brescia e di Vicenza..
Qual è stato il tuo percorso artistico?
Ho sempre avuto una passione per l’immagine e per il cinema. Ho studiato filosofia a Milano, poi economia politica. Dopo mi sono trasferito a Londra dove ho frequentato la Scuola nazionale di cinema. Ho iniziato a lavorare come direttore della fotografia coltivando in parallelo i miei progetti. La scomparsa di mia madre è il mio primo lavoro come autore.
Molte delle riprese risalgono al passato. Sin dall’inizio pensavi che avresti realizzato un film su di lei o è stata un’idea maturata nel tempo?
Inconsciamente questo istinto mi è sempre appartenuto sin da bambino. Ho trovato anche dei temi scolastici in cui raccontavo la sua vita, la sua storia. Ma un’idea più concreta si è sviluppata solo quando vivevo a Londra e ci vedevamo più raramente: la distanza mi ha mostrato più chiaramente il potenziale del suo messaggio.
«In fondo nessuno mi ha fotografata davvero» dice tua madre nel film. Ha cambiato idea dopo il tuo documentario?
Inizialmente no. Col tempo, però, si è resa conto che il film racconta un lato più autentico della sua persona, ha iniziato a riconoscersi in quel personaggio senza filtri o mediazioni, che è anche rappresentazione della sua vecchiaia. Stranamente sono io a essermi reso conto che in ogni narrazione che facciamo c’è sempre un alto livello di semplificazione: per natura delle cose, ho raccontato la mia versione di mia madre, non mia madre.
In un recente articolo apparso sul New Yorker si parla di una connessione tra il desiderio di scomparire di tua madre e il lockdown che stiamo vivendo. Tu hai maturato nuovi pensieri dopo questa fase che sta coinvolgendo tutti?
L’atteggiamento restringente di mia mamma verso il mondo appartiene un po’ a tutti noi in realtà. La sua protesta già faceva parte di me sicuramente, così come la ricerca di una vita più autentica, in cui non si seguono solo passivamente delle norme. Gli ultimi due mesi hanno obbligato un po’ tutti a questo. Per me è stato interessante e sicuramente ho capito di più mia madre. Vedere il film oggi, in una nuova chiave, può forse donare un nuovo tipo di ispirazione o forza.
durante questa quarantena molti hanno provato lo stimolo di narrare, mentre io ho sentito l’esigenza di viverla senza trasformarla subito in immagine.
Hai cambiato il modo di concepire l’immagine?
Sono sempre più consapevole dell’artificiosità dell’immagine, anche di quelle che sembrano vere. Più proviamo a raccontare un’anima, più ne diamo un’interpretazione che è nostra. Prima c’erano le copertine, ora le immagini con i social sono parte del nostro vivere quotidiano. C’è bisogno di strumenti per difendersi dall’onnipresenza dell’immagine. Io ne sono stato sempre ossessionato, ma ho imparato a capire le immagini, a vivere le esperienze senza la sua intermediazione e senza doverla usare come diversivo per falsificare le esperienze. Ad esempio, durante questa quarantena molti hanno provato lo stimolo di narrare, mentre io ho sentito l’esigenza di viverla senza trasformarla subito in immagine. Voglio usarla più consapevolmente.
In una scena del documentario dici a tua madre che ti dispiace che lei voglia andar via, ma che lo vuoi perché le fa piacere. Lei risponde «Sai quanti possono permettersi questo lusso?». Con il docufilm hai esorcizzato la tua paura?
Sì. Anche se mi sono reso conto che la catarsi è possibile fino a un certo punto. Io ho provato un po’ a forzarla sicuramente. Questo film è tutto e il contrario di tutto: da un lato un modo di affrontare una separazione che con un genitore non avviene quando non c’è più, è un elemento interiore: può accadere prima o dopo. D’altro canto il film è anche un tentativo di trattenere mia madre, provare a scambiare la realtà con la visualizzazione. Il mio pensiero era “se attua la scomparsa nel film, allora non avrà più bisogno di farlo”. È stato questo miscuglio di intenti, speranze e suggestioni a portare avanti il film.
In Italia il documentario è un genere spesso considerato di nicchia. Hai notato differenze nella sua ricezione in Italia e all’estero?
Purtroppo è vero. Qui si pensa al documentario ancora come quello che vedevamo alle elementari sulla savana o sulla Seconda guerra mondiale. In realtà si tratta di un genere sempre più forte, anche sul mercato: basta aprire Netflix per accorgersene. I documentari per il pubblico sono importanti tanto quanto gli altri generi. In Italia forse questo passaggio non c’è stato ancora. Il cinema documentario ha un potenziale visivo molto alto e merita la sala cinematografica più di quanto accada attualmente. All’estero ci sono più festival dedicati ai documentari, più sale che li proiettano. C’è anche un’altra differenza con l’estero. In Italia forse le persone rimangono un po’ deluse perché, già conoscendo mia madre, vedono il documentario aspettando di sentirsi raccontare la sua storia come modella o personaggio televisivo. All’estero chi vede il film non si aspetta nulla e guarda il docufilm con più libertà.
Pensi che in futuro anche tu vorrai scomparire?
Come ho già detto, credo si tratti di un istinto che appartiene un po’ a tutti. Nel mio caso non vorrei che diventasse estremo come in mia madre. Cosa difficile, perché nel suo caso questo desiderio è sicuramente collegato a un modo in cui è stata utilizzata la sua immagine nel suo passato e anche alla paura di morire. Mi auguro di riuscire ad agire diversamente rispetto ad alcuni imperativi dell’immagine, dell’apparire, questo sicuramente.
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