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Una still tratta da Grand Tour di Miguel Gomes: la protagonista Molly (Crista Alfaiate), con in dosso una maschera, guarda un uomo che indossa una maschera con le fattezze di una mucca

Grand Tour, viaggio ai confini del cinema

10 minuti di lettura

Vincitore del Prix de la mise en scène all’ultimo Festival di Cannes, Grand Tour è l’ultima fatica di Miguel Gomes, regista e critico cinematografico portoghese, amato e rispettato all’interno dei maggiori circuiti festivalieri. Fornire queste informazioni in apertura della recensione di questa sua ultima pellicola risulta necessario per poter inquadrare il suo autore e permettere di comprendere la nicchia in cui si muove e il tipo di cinema che produce – secondo i più, difficile, alto. Egli, infatti, è noto per le sue opere prosaiche e concettuali, poetiche e apparentemente ermetiche nella loro ibridazione di cinema di finzione e documentario – si pensi a Tabù e la trilogia de Le mille e una notte, entrambe recuperabili su Mubi.

Se, da un lato, questa descrizione della sua opera non è errata, dall’altro lato impedisce ad un più vasto pubblico di approcciare il lavoro del regista portoghese a causa di categorizzazioni ed etichette così elitarie. I film di Gomes hanno senz’altro un’allure e un peso intellettuali; al tempo stesso, sono anche opere che manifestano una visionarietà, un piacere così puro per l’estetica, per il cinema e l’immagine, che le rende affascinanti e coinvolgenti per chiunque. Le sue sono opere nelle cui immagini e storie è facile e bello perdersi – e in questo senso, Grand Tour è la summa del suo lavoro.

Grand Tour, un caleidoscopio di immagini e poesia

Un'immagine tratta da Grand Tour di Miguel Gomes: il protagonista Edward, bagnato dalla testa ai piedi, tiene in mano un mazzo di fiori e di piante

Rangoon, Birmania, 1918. Edward, un funzionario dell’Impero britannico, fugge dalla fidanzata Molly il giorno del suo arrivo per il loro matrimonio. Durante il viaggio, però, il panico si trasforma in malinconia. Contemplando il vuoto della sua esistenza, il codardo Edward si chiede che fine abbia fatto Molly… Nel frattempo Molly, decisa a sposarsi e stranamente divertita dalla fuga di Edward, segue le tracce del fidanzato in un lungo grand tour asiatico.” Questa è la sinossi ufficiale diffusa dalla casa di distribuzione – Lucky Red, la casa di distribuzione di Andrea Occhipinti – all’interno dei materiali stampa della pellicola.

Essa sintetizza nel modo migliore possibile la trama di Grand Tour, è vero. Al tempo stesso, tuttavia, non riesce a cogliere assolutamente quella che è l’esperienza di visione e l’essenza dell’opera. Il film di Gomes, infatti, con il suo ritmo lento e la sua struttura frammentaria, dimostra un interesse marginale nei confronti della storia che racconta. Una storia che, a ben vedere, si lega ad alcuni dei motivi ricorrenti nel cinema di Gomes: l’evasione, la fuga, lo smarrimento.

La fuga è, in effetti, l’espediente narrativo principale in Grand Tour: Edward scappa dalla sua fidanzata, oltre che dalle sue responsabilità, perdendosi nel profondo continente asiatico, in quanto estraneo che può solo osservare culture molto diverse tra loro, che percepisce come esotiche. Questo senso di perdizione, di smarrimento, è reso da Gomes (anche) attraverso una struttura filmica poco rigida, in cui ogni scena si lega debolmente a quella precedente e che a metà della pellicola ribalta la prospettiva – dal punto di vista di Edward si passa, infatti, a quello di Molly.

Lo spettatore si trova, dunque, nella stessa posizione dei protagonisti della vicenda narrata, costantemente spaesati di fronte ad una pellicola così instabile, cangiante e senza punti di riferimento, un testo filmico che si allontana dalla tendenza contemporanea allo “spiegone” e al guidare costantemente lo spettatore verso la direzione che la pellicola stessa vuole intraprendere.

Grand Tour, quindi, attraverso questa sua costruzione, invita i suoi spettatori a perdersi nelle immagini, nelle suggestioni e nelle visioni che la pellicola offre, in un caleidoscopio visivo formidabile e sempre di grande inventiva. L’evasione di cui si parla nelle pellicole di Gomes non è solo il mezzo attraverso cui si raccontano le vicende, ma diviene anche parte integrante dell’esperienza filmica, oltre che il fine ultimo del narrare.

Il cinema fatto di dualità di Miguel Gomes

Un'immagine tratta da Grand Tour di Miguel Gomes: un panda osserva in macchina mentre si trova appeso al tronco di un bambù

Fondamentale all’interno della ricerca filmica di Gomes è l’ibridazione del linguaggio cinematografico di fiction con quello del cinema del reale. Già presente in maniera evidente nel suo Le mille e una notte – non un adattamento fedele del celebre testo di favole orientali, ma una fantasticheria che ne recupera la struttura per raccontare la crisi del 2011 in Portogallo -, questa fusione è centrale in Grand Tour, in quanto la storia di Edward e Molly, ambientata nel primo dopoguerra, viene raccontata anche attraverso immagini documentarie catturate dal regista quasi un secolo dopo. Immagini di forma e statuto diverso che si uniscono e si amalgamano, a creare un effetto che viene così descritto dal regista:

Abbiamo creato le condizioni perchè lo spettatore proietti sensazioni sui personaggi in base a ciò che vede, anche trovandoci qualcosa che non era nelle mie intenzioni […] il depistaggio è un effetto collaterale del tutto voluto, che porta lo spettatore a proiettare la sua immaginazione su quel che vede. Il cinema diventa interessante quando, anzichè limitarsi a mostrare una sola cosa, ne lascia osservare diverse, mettendole in contatto tra loro.1

La dicotomia cinema del reale/cinema di finzione porta con sè, all’interno di Grand Tour, molte altre forme dicotomiche e antitetiche: bianco e nero/colore, presente/passato, realtà/rappresentazione. Immagini così diverse tra loro si scontrano e si uniscono, pur nelle loro differenze, per creare un’esperienza filmica e di visione unica, che sintetizza in sé suggestioni e modalità di visione assai lontane tra loro. Questa sintesi, questo incontro tra due immaginari così diversi è possibile solo grazie e attraverso le modalità di storytelling: è solo nel cinema, ci suggerisce Gomes, che tali antinomie, come per magia, possono coesistere tranquillamente.

Un'immagine tratta da Grand Tour di Miguel Gomes: sull'immagine in bianco e nero di un pullmino vi sono in sovrinpressione delle scritte al neon di diversi colori e ideogrammi

Questo potere assoluto e totale del cinema è ben evidente e rimarcato da Gomes nel finale di Grand Tour: nell’ultima sequenza della pellicola, la macchina da presa inquadra i macchinisti che manovrano i fari di scena, squarciando definitivamente il velo di Maya e palesando la natura fittizia della rappresentazione filmica e della narrazione.

L’artificio viene meno e ciò permette addirittura ad un personaggio che aveva appena incontrato la morte di riaprire gli occhi, alzarsi e uscire di scena – sequenza, questa, che si ricollega al momento presentato all’inizio di Grand Tour, in cui Gomes ci mostra prima un burattinaio e subito dopo, con uno stacco di montaggio, lo spettacolo di ombre cinesi che costui sta mettendo in scena. Sequenze come queste dimostrano come tutto sia possibile grazie alla narrazione e agli artifici e manipolazioni dello storytelling.

Riecheggiando Sans Soleil di Chris Marker – un classico del cinema sperimentale, col quale i paragoni con il film di Gomes si sprecano, dall’inaccessibilità dell’Oriente fino allo stravolgimento della struttura del travelogue -, Grand Tour è un’opera che, più che raccontare un viaggio in Asia, come sembrerebbe superficialmente, ci invita a compiere un viaggio verso le possibilità infinite del mezzo cinematografico. È un’opera in grado di mantenere il fascino del cinema, pur mostrandone gli artifici. Quello di Gomes, insomma, è un invito per lo spettatore a perdersi nella bellezza dell’artificio narrativo, delle immagini in movimento, delle suggestioni che solo la sala buia del cinema è in grado di regalare.


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  1. Sacchi Emanuele, “Orient express“, FilmTV, n. 49 (dicembre 2024), pg. 10-13 ↩︎

Classe 2001, cinefilo a tempo pieno. Se si aprissero le persone, ci troveremmo dei paesaggi; se si aprisse lui, ci troveremmo un cinema. Ogni febbraio vorrebbe trasferirsi a Berlino, ogni maggio a Cannes, ogni settembre a Venezia; il resto dell'anno lo passa tra un film di Akerman, uno di Campion e uno di Wiseman.

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