Made in EU è un film sul Covid-19 e sulla remota periferia est dell’Unione Europea. Presentato a Venezia nella sezione Spotlight, lo sguardo di Stephan Komandarev (che nel 2023 aveva rappresentato la Bulgaria agli Oscar con “Blaga’s Lessons“) torna a soffermarsi su una dimensione reale e dolorosa di disuguaglianze, ingiustizie e promesse tradite.
Made in EU ha il merito di raccontare la pandemia
Quanti film, non documentari, sono stati girati per raccontare la pandemia da Covid-19? E quanti di questi, soprattutto, hanno saputo imprimere sullo schermo lo spaesamento, l’angoscia, il vacillamento dalle fondamenta delle nostre società che hanno segnato le prime settimane di diffusione in Europa del virus?
Certo, soprattutto all’indomani delle fasi più acute e drammatiche della pandemia, non sono mancate le opere che hanno affrontato il lockdown o la trasformazione digitale delle nostre vite.
Eppure anche il “nostro” cinema ha forse accantonato troppo presto la pandemia, partecipe di una fretta di dimenticare che ha presto coinvolto molte e molti. Come se il tema non fosse la vicenda più sconvolgente per l’intero pianeta almeno dalla fine della seconda guerra mondiale (ricordiamo le metropoli deserte, il blocco di interi settori economici, il razionamento delle terapie intensive?).
Made in EU ci riporta a marzo 2020 e alla realtà di una fabbrica tessile nei pressi di un piccolo paese della campagna bulgara, terra di miniere distante dal centro della capitale Sofia e da quel vagheggiato benessere dell’Unione Europea di cui dal 2007 anche la Bulgaria fa parte.
Come arriva il Covid-19 in una piccola fabbrica di periferia
Da qui, e attraverso il punto di vista delle operaie che ogni mattina prendono il bus dal paese per recarsi in fabbrica e cucire le etichette “Made in EU” sui capi dell’azienda, osserviamo l’avvento strisciante della pandemia.
Sintomi ignorati o sottovalutati, lavoratrici fatte nascondere dal caporeparto negli spogliatoi durante la visita degli ispettori per simulare il rispetto delle norme di distanziamento, il detersivo per piatti distribuito dall’azienda e spacciato per gel igienizzante. E poi lo scetticismo popolare che diventa anche una forma scaramantica di autoconvincimento protettivo. “Pensavo che il Covid fosse solo a Sofia”, dice a un certo punto una delle sarte della fabbrica, riassumendo tutta la distanza con cui la periferia rurale e operaia può percepire i centri e le capitali europee.
Una distanza da cui si vede anche l’Italia, che appare sullo schermo come terra di emigrazione per le “badanti” che mandano i soldi a casa. E come centro industriale, nella bergamasca, in quel momento primo focolaio riconosciuto di Covid e legato a questa periferia da catene produttive che attraversano il continente alla ricerca di costi sempre più bassi.
E ancora la caccia all’untore. In questo caso Iva (Gergana Pletnyova), protagonista di Made in EU, primo caso accertato di Covid-19 nella piccola cittadina in cui si svolgono tutte le vicende del film.
Attraverso di lei, Komandarev porta alle estreme conseguenze la psicosi che nel volgere di poco tempo aveva condotto molte persone a passare dai canti collettivi e gli arcobaleni sui balconi alla ricerca spasmodica di un colpevole, di un capro espiatorio a portata di mano su cui sfogare frustrazioni e fragilità di fronte a ciò che è imprevedibile e, apparentemente, ingovernabile.
Lasciando sedimentare una domanda assillante in quei giorni e che abbiamo, per fortuna, dimenticato. Come si fa i conti con il pensiero di avere portato, inconsapevolmente, la morte in casa, nella propria famiglia, tra i propri amici?
Made in EU, la promessa tradita dell’Unione Europea
Accanto a Iva, per tutta la durata di Made in EU, troviamo anche il figlio ventenne aspirante youtuber, alle prese con i preparativi per emigrare in Germania con la fidanzata, in cerca di una fortuna e di una felicità che appaiono impossibili da trovare in questa terra sperduta.
Attraverso il suo viaggio mancato, impedito dalla quarantena e dal lockdown, Komandarev introduce la chiave di lettura fondamentale di Made in EU, che non va rintracciata solamente nell’esperienza della pandemia ma, appunto, anche nel rapporto tra questo est di periferia e i sogni infranti dell’Unione Europea. Tra una promessa tradita di futuro, che per molti si è trasformata nella sola speranza di emigrare, e questa fabbrica dell’Europa, dove lavorano dentro feroci meccanismi di sfruttamento attività manifatturiere internazionali che qui assemblano e vendono i propri prodotti a marchio “Made in EU”.
È lo scenario angosciante e desolante che fa da sfondo al film: magnati che rivestono di finta beneficenza il cinismo con cui estraggono ogni risorsa, umana e materiale, di un territorio per il proprio profitto, personaggi compromessi e complici che sacrificano tutto, anche i rapporti familiari, sull’altare di una piccola porzione di privilegio, vite dignitose e sconfitte di chi per vivere deve lavorare e non intravede più alcuna prospettiva per trasformare il futuro proprio e dei propri figli. Uno scenario denso di disuguaglianze e ingiustizie dove il Covid-19 irrompe come un detonatore.
In questo contesto Komandarev (lui stesso laureato in medicina) consegna all’esperienza del medico che per primo diagnostica il Covid-19 di Iva, da poco in pensione e richiamato per la pandemia, il compito di definire la prospettiva del lungometraggio.
E lo fa con due battute manifesto. La prima rivolta al ragazzo angosciato dal dover rimanere “recluso” in Bulgaria, che guarda alla Germania come al paradiso delle opportunità. “Non conosco emigranti felici. – replica a un tratto – Soddisfatti magari sì, ma felici no”. E tuttavia proprio questo sarà, alla fine, anche il suo destino.
La seconda indirizzata a un burocrate ministeriale, giunto da Sofia per certificare una “comoda” verità sulla diffusione del virus, che protegga gli interessi economici del padrone della fabbrica e della cittadina. “Quello che ci avevano raccontato del comunismo era falso, – dice riferendosi agli anni della Repubblica Popolare – ma tutto quello che ci avevano raccontato del capitalismo era vero”.
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