Andrea Segre era a Venezia quando il conoravirus ha svuotato la città. Stava preparando un film e uno spettacolo sulle due grandi minacce della laguna: «i turisti e l’acqua alta». I primi, scappati nei giorni precedenti alla pandemia, hanno lasciato riposare il moto ondoso che da anni fagocita la città. Senza le grandi navi e gli schiamazzi di San Marco, Venezia si è concessa a Segre come su un set: vuota, quasi finta, drammaticamente vera. Così, i suoi progetti si sono adattati e formulano un film, Molecole, che cambia di continuo. Incarnando l’assurdo di quella manciata di giorni che hanno condotto al lockdown.
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Ritrovare un padre nella Venezia deserta
Segre intervista i veneziani, divisi tra posizioni «apocalittiche e bucoliche». Non si parla ancora di virus, non seriamente, ma Venezia prende presto la forma di piccolo osservatorio sul mondo. A scandire la visione sono le date, pronunciate da Segre durante l’incessante monologo che accompagna il film. «25 febbraio»: si riflette sui turisti. «27 febbraio»: l’acqua alta. Da qui si passa al “cambiamento”. Si intende “climatico”, ma a Venezia è una quotidianità che non ha bisogno di puntualizzazioni. Infine, quando il film si chiude coi negozi, intorno al fatidico 9 marzo, si apre all’autobiografia. Perché Molecole usa Venezia. La città serve a Segre per incontrare il padre, nato nel capoluogo veneto, vissuto nel ricordo della laguna e morto 10 anni fa. Nella casa della Giudecca in cui trascorre il lockdown, Segre trova alcuni Super 8 girati in gioventù dal padre Uberto. Se ne stupisce: «Una cura dell’immagine che non mi sarei mai aspettato». Perché lui, del padre, non sa molto. «Parlava poco, forse fa parte dell’essere padri». Osserviamo i materiali d’archivio affiancarsi alle riprese euforiche nell’esplorazione della Venezia deserta. Nel frattempo, la voce fuori campo cerca risposte ai grandi quesiti. «Chi ci sta guardando, papà?». Così Venezia si perde, arrivano i ricordi e ci si scopre confusi, un po’ commossi. Come si fosse di troppo.
Molecole di vita nel cinema del lockdown
Infatti, Molecole appartiene più al regista che allo spettatore, a cui si offre e si nega. I filmati sono materiali con cui Segre riempie i vuoti lasciati dal padre in conversazioni mai concluse, affidate a un tempo non più a loro disposizione. La sensazione è di restare sempre fuori dalla questione. Riguarda Segre, non noi, e il film è un suo strumento. Venezia fa però da collante, invitandoci a scoprire brandelli di vita di un uomo che studiò per anni «i piccoli elementi della materia che non vediamo ma che determinano l’evoluzione delle nostre vite». Le molecole, appunto.
Tra documentario e racconto personale
Parlare di documentario è forse riduttivo, di certo fuorviante, perché Molecole è un groviglio di riflessioni senza freno. Uno sguardo ancora inedito al cinema da lockdown. Per questo, abbandonata la prima parte dedicata alla città e ai suoi cambiamenti, risuona retorico, quasi eccessivo. Il lungo parlare di Segre è il moto ondoso di immagini invece stabili, poetiche. Venezia, ripresa dal padre e riproposta da Segre fa da corollario a interviste, lettere, citazioni, foto. Tutto ciò che la quarantena ci ha permesso di riscoprire mentre eravamo chiusi in casa con un album di famiglia in mano.
Molto di questo cinema ci attende. Ora, da quelle case in città fantasma gli artisti sono usciti e cercano le parole per raccontare pensieri confusi. In tal senso, Molecole è il film perfetto per l’anteprima della 77° edizione della Mostra del cinema di Venezia. Perché anche se lungo, dispersivo e abbacinante, racchiude i modi (e le immagini) di un momento condiviso. Per un solo attimo Molecole è documentario. Ma anche quando cambia permane il testamento di una Venezia magica. Di certo materiale utile per un futuro in cui su tutto questo, su quelle molecole (di virus e di persone), si tornerà con più chiarezza e lucidità. Intanto, è giusto capire e osservare, con la compassione eccezionale che il 2020 ci ispira, i ricordi di un figlio nella città del padre.
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