Nella sua opera, Moravia identificava due tipi di noia. La noia “volgare”, quello stato d’animo che si esaurisce e si consuma in sé stesso, semplice e banale, che non chiede di meglio che essere alleviato da esperienze nuove. Vi è, poi, un tipo di noia diverso, una noia “esistenziale” o, come la descriveva Dino, uno dei personaggi più emblematici della penna di Moravia, la consapevolezza teorica di poter, forse, uscire da quella forma oscura a sé stesso e agli altri.
Nel romanzo La Noia, lo scrittore romano identifica tale sensazione nell’impossibilità di possedere in maniera trascendentale gli oggetti e la realtà circostante, in un flusso di pensieri che fanno eco alla nausea sartriana. Tuttavia, Moravia aggiunge un altro tassello a questa esperienza filosofica: la coscienza di classe. L’onnipresente borghesia. “Forse mi annoiavo perché ero ricco”, scrive: per quanto il suo personaggio, dopo essersi liberato del denaro di sua madre, realizza che la Noia è qualcosa che va oltre il suo status sociale e lo possiede nella sua interezza umana, qui Moravia inserisce una riflessione che, seppur a un livello meno esplicito, era già cominciata nella grande letteratura romanzesca dell’Ottocento, i cui temi ritorneranno anche nel cinema europeo.
Questo legame è reso ancora più evidente se si parla di personaggi femminili, che sia nell’opera letteraria che al cinema trovano nella propria noia l’espressione di un’angoscia umana profonda e, in secondo piano, una critica sociale nei confronti della classe medio borghese.
Madame Bovary, il modello ideale
Nel suo saggio del 1974, From reverence to rape, la critica cinematografica Molly Haskell sosteneva che il modello femminile del cinema europeo del Novecento affondava le proprie radici in Madame Bovary. L’anti eroina del romanzo di Flaubert, immersa nella vita monotona della campagna francese, si illude di poter trovare nel matrimonio una via di fuga dall’esasperante grigiore dei suoi giorni da nubile, ma ben presto l’insoddisfazione e la noia tornano a prendere possesso della sua esistenza.
Madame Bovary tenterà invano di colmare questo senso di vuoto, con delle relazioni extraconiugali o con un bisogno sfrenato di comprare mobilio e vestiti, tanto da indebitarsi. Nelle sue fantasie, Madame Bovary cerca costantemente una vita “altra”, ideale, dominata da passioni totalizzanti, una ricerca che si scontra inevitabilmente con lo stile di vita del piccolo borghese, messo al centro della narrazione flaubertiana. Flaubert, che mai interviene nella narrazione con commenti o giudizi, lascia trapelare tra le righe la crisi dei valori aristocratici e borghesi del suo tempo. Questa figura “aliena” si concretizza anche nelle eroine-morali e intellettuali di Mauriac, Resnais, Duras e, in Italia, di Rossellini e Antonioni, o ancora nelle eroine amorali, viziate e alla deriva dei film di Sagan, Godard, Rohmer, Tanner, Vadim.
Queste donne del cinema appaiono più libere ed emancipate dei modelli romanzeschi ottocenteschi, in quanto partecipi dello Zeitgeist (cioè lo spirito culturale) del proprio tempo, ma mai totalmente svincolate da quella dimensione romantica che accerchiava Madame Bovary. Certo, vi sono anche donne legate alla propria carriera, eppure questa resta di contorno oppure non un elemento scatenante un’evoluzione nel personaggio femminile. In questi film le donne sono sempre le protagoniste delle proprie storie d’amore, anche in un un’antiromantica, moderna accezione in cui l’eroina, proprio come Madame Bovary, si inserisce nel quadro di una borghesia perennemente sconsolata e alla ricerca di qualcosa.
La donna borghese, così come nella letteratura che al cinema, è la vittima di ennui, una versione più opprimente della semplice noia, uno stato d’animo di irrequietezza che è più di una semplice voglia di fare qualcosa, ma non una disperazione vera e propria. Nell’arte si è spesso costituito come un sentimento femminile, in una combinazione di desiderio e frustrazione, voglia di sentire di più e fare di più. Molly Haskell individua proprio nel cinema italiano una forte presenza di questo prototipo femminile, nonostante l’atteggiamento culturale italico nei confronti delle donne che, secondo la scrittrice, in quell’arco di tempo a cavallo tra i ’50 e i ’60 era particolarmente “arcaico”. I personaggi di Monica Vitti e Ingrid Bergman nati nel cinema di Antonioni e Rossellini ci danno un’idea ben precisa di quella noia, l’ennui, che nella sua suggestione di vuoto spirituale, avvicina lo spettatore a un’angoscia metafisica.
La noia femminile in Antonioni
Con Antonioni, il terreno emotivo e sociale è desolato, in maniera commisurata e completa, i vuoti interiori dei personaggi si rispecchiano l’uno nell’altro. Monica Vitti, nei suoi film, diviene la sacerdotessa perfetta del nichilismo, con la sua estetica che riflette costantemente un senso di perdita senza speranza. Sempre Molly Haskell, in questa parabola del cinema italiano ritrova un’altra matrice letteraria, ossia l’influenza dei personaggi femminili di Cesare Pavese. Uno dei suoi romanzi (Tre donne sole) fu anche adattato per il cinema da Antonioni in una delle sue prime opere, Le Amiche.
leggi anche:
Malena di Tornatore e il piacere dello sguardo
Nel film vi è una cerchia di donne borghesi, che si presentano sempre chic ma arruffate, svogliate ma intelligenti, più passive che “sessualmente aggressive”, come accadeva invece nelle eroine francesi (basti pensare alla Bardot). Figure che esprimono la cupezza del paesaggio sociale moderno. In questo senso, Antonioni “userà” Vitti esteticamente: è attiva o passiva, stazionaria o mobile a seconda del suo capriccio, e la sua utilità nella trama è soprattutto quella di fare da cassa di risonanza della disperazione che permea le sue pellicole, attraverso i lunghi silenzi. Negato il mezzo della parola, ella diventa uno specchio di quella visione glaciale tipicamente antonioniana, che si rifà più a un aspetto politico e sociale (piuttosto che morale e psicologico, come nel caso di Rossellini), e che vede la redenzione più come uno sforzo collettivo che individuale.
La noia dal cinema alla moda
L’immaginario di queste donne sospese tra le proprie nevrosi o crisi spirituali e il proprio status sociale di donne ricche, eleganti e sofisticate si traduce visivamente anche in un immaginario di moda. Vi sarà capitato su Instagram negli ADV di incorrere ne lo slogan “L’erotica noia borghese”: la t-shirt con impressa questa frase fa parte del marchio di Edoardo Gallorino, stilista che per la sua collezione 2020 richiama proprio l’immaginario cinematografico che, come si può leggere sul suo sito, va dal personaggio di Silvana Mangano di Gruppo di famiglia in un interno e di Teorema, a quello di Catherine Deneuve in Belle de Jour, fino alla Tilda Swinton di Io sono l’amore.
Donne diverse tra loro ma che tracciano un cammino in comune, segnate dal decadimento morale (secondo i valori predisposti dalla propria bolla sociale) a un’atmosfera vagheggiante, sofisticata, legata soprattutto ad un immaginario di opulenza ed eleganza. Non è un caso che, sia nei libri che dei film, la voglia di evasione dall’universo rigido borghese si traduce in dettagli visivi e immediatamente espliciti: la perdita di un fazzoletto, un guanto prezioso lasciato cadere a terra, un ciuffo di capello spettinato, il trucco guastato.
Perché la donna borghese?
E perché, dunque, proprio la borghesia? Perché la borghesia si instaura in un tono chiaramente polemico, rappresentata come vacua e opprimente e a cui si associano significati politici ed economici più profondi, come nel caso di Pasolini e Moravia. Le donne si fanno carico di quella che, in una chiave di lettura superficiale, è un’esperienza sciocca e inutile, perché sciocca e inutile è la loro vita e cercano in tutti i modi, dunque, di stravolgere quella noia derivata, sostanzialmente, dal non far nulla o occuparsi di attività prettamente borghesi (la socialità, la cura della famiglia, ecc.).
Del resto, i luoghi comuni che avvolgono la figura di Madame Bovary sono proprio questi: insostenibile, lagnosa, superficiale. In un’ottica più profonda, invece, queste sono vere e proprie eroine che cercano di scavalcare le regole imposte loro dalla società, una società che le tiene in gabbia nei loro abiti eleganti e incontri occasionali. Sono simbolo di fuga, di rivolta. E sono dunque loro, categoria oppressa nella storia, investite dell’arduo compito di sfidare i codici morali, anche a sacrificio del proprio benessere.
Articolo scritto in collaborazione con lasmarginatura.
Seguici su Instagram, Facebook, Telegram e Twitter per sapere sempre cosa guardare!