Sarebbe pressoché inutile, per non dire impossibile, provare a dare una spiegazione logica o razionale a qualsiasi prodotto artistico partorito dalla mente del maestro dell’assurdo, David Lynch. Dunque difficile è parlare del suo cortometraggio, recentemente pubblicato su Netflix: What did Jack do?. Perché come diceva John Cale in una celeberrima canzone «i ricordi surrealisti sono troppo informi e protervi», come a sottolineare l’impenetrabilità alla quale siamo sempre sottoposti e che invano tentiamo di decifrare. David Lynch ha però dimostrato, in modo sempre brillante, di sapersi adeguare ad ogni tempo grazie ad una strabiliante poliedricità, spaziando dalla pittura alla musica, influenzando più menti di chiunque altro…una sorta di guru artistico del nuovo millennio, anzi, del nuovo decennio.
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L’opera più recente porta il titolo di Ant Head, un cortometraggio musicale dai rimandi espressionisti. Un collage di tecniche, avvolto da una sempre più spinta scelta underground ed un immancabile viraggio monocromatico. Il corto è stato pubblicato attraverso i canali ufficiali della Sacred Bones Records (la stessa casa discografica di John Carpenter) per inaugurare l’uscita dell’ultimo album dell’artista americano, Thought Gang. Tuttavia, il meno recente ma di fresca pubblicazione è What Did Jack Do? rilasciato dopo due anni dalla sua presentazione presso la Fondation Cartier pour l’Art Contemporain di Parigi. Il corto è stato reso pubblico e distribuito a livello mondiale dalla piattaforma di streaming più famosa di sempre: Netflix.
La sinossi ufficiale: «Un detective interroga una scimmia sospettata di omicidio».
Come (non) scrivere un dialogo da incubo: What did jack do?
Due personaggi, un cebo cappuccino di nome Jack ed un detective innominato interpretato dallo stesso Lynch, sono seduti su due Lollipop Chair (un prototipo disegnato da Lynch) davanti ad una buona tazza di caffè, in quella che sembra essere la più vuota tavola calda di una stazione, intrisa della solita degenerazione industriale. I due parenti darwiniani sono incastonati perfettamente all’interno di un quadretto, il cui punto di fuga coincide con una piccola finestrella posta al centro dell’inquadratura. Da quest’ultima è possibile intravedere le fattezze e udire i suoni della stazione disperdersi tra quelle mura silenziose che ricordano l’architettura di Eraserhead…un po’ come gli sbuffi delle inesauribili sigarette di cui il regista è follemente innamorato. Ecco dunque, di questo parla il film, di amore…no anzi…
Con questo corto Lynch sembra accantonare l’idea orrorifica dell’incubo, adottando uno stile più simile ad un sogno dalle sfumature favolistiche.
Cosa ha fatto Jack? Ma ancor prima, chi era?
Il nome attribuito alla scimmietta non sarà sicuramente ispirato a quella omonima di Pirati dei Caraibi, è invece più accattivante pensare che i significati reconditi che questo nome si porta appresso sin dalla rivoluzione industriale non siano per nulla casuali. Il nome Jack, infatti, è entrato a far parte della cultura di massa grazie al suo uso (storico, leggendario, letterario ma anche cinematografico, basti pensare al Jack del capolavoro di Woody Allen: Crimini e misfatti) spesso legato alla figura del killer, precisamente quello che svolgeva la sua efferata attività nei sobborghi della Londra vittoriana. Un nome, quindi, probabilmente simbolico, non a caso il film si dilunga in una sequela (sensata) di frasi fatte, ma soprattutto di luoghi comuni e idiomi della lingua inglese.
David Lynch e la gallina dalle uova d’oro
Jack ed il suo inquisitore iniziano dunque a dialogare come se fossero sotto l’effetto di un raro tipo di droga, alternati da un classico campo e controcampo. L’autore non si cela solamente dietro al comparto tecnico dell’intera pellicola e neanche si limita a vestire i panni del detective fumatore, ma sostituisce digitalmente anche la bocca della scimmietta, arricchendola con una voce distorta. Una tecnica usata spesso da Lynch, sia in musica che in video (Out Yonder), che ancora una volta sottolinea un dualismo tra i protagonisti ed una scarsa differenza antropologica.
Ad un certo punto dei 17 minuti di pellicola il detective, sempre più vicino alla confessione, interverrà di prepotenza pronunciando una frase alla quale Jack risponderà con un brivido. La frase ha come protagonista una gallina, un pollo direbbe Jack. Tentando (cautamente) di ripercorrere l’assurda cronologia artistica di Lynch, è possibile imbattersi in diverse rappresentazioni del suddetto volatile: da deprimenti nature morte di stampo pittorico e dissezioni per alcuni riti macabri a polli sintetici dai quali scorre ancora del sangue. Insomma, si potrebbe considerare l’animale feticcio del regista, forse è per questo che gli ha dedicato una canzone d’amore…
What did jack do? Una mosca bianca…e nera
Come tutte le opere lynchiane, che siano pitture nere, canzoni anti melodiche o pellicole sporche, anche quest’ultima trovata costituisce un pezzo di rara bellezza da conservare gelosamente nella sua personale collezione d’arte…ma sopratutto nel nostro catalogo Netflix. Lynch imbastisce un teatrino grottesco, fuori dal tempo e dalla narrazione. Un ritratto surrealista a tratti malinconico ed auto-ironico, in cui i personaggi (tre, compresa la cameriera) dialogano in modo sconclusionato (un po’ come parlare ad una scimmia), pur rimanendo credibili grazie ad una messinscena chiaramente parodistica nei confronti della propria arte, compresa quella cinematografica, che dall’ormai lontano 2006 ha lasciato con Inland Empire – L’impero della mente. Tutto si riduce momentaneamente ad una stanza e due primati, in sottofondo possiamo ascoltare i fischi dei treni in arrivo o in partenza, probabilmente gli echi lontani della magnetica e sensuale Ghost of Love…oppure una mera ed indefinibile alterazione surrealista.
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