Presentato nella sezione Orizzonti dell’ormai passata 82a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Pin de Fartie, per la regia di Alejo Moguillansky, è il nuovo, imperdibile film del collettivo argentino El Pampero Cine – una delle realtà cinefile più radicali ed elettrizzanti del panorama contemporaneo. Il collettivo – fondato dallo stesso Moguillansky assieme a Laura Citarella, Mariano Llinás e Agustín Mendilaharzu – si pone come obiettivo quello di reinventare le pratiche produttive e il linguaggio del cinema attraverso “un sistema di produzione che rifiuta le idee del cinema industriale e abbraccia l’indipendenza radicale da tutte le fonti di finanziamento, permettendo una produzione costante e fertile”, come si legge nel loro dossier online.
Pin de Fartie, da questo punto di vista, è forse uno dei film più emblematici – assieme a La Flor di Llinás e Trenque Lauquen di Citarella – di questa ricerca, un’operazione che, passando per il teatro dell’assurdo, riflette sul cinema e sul suo linguaggio.
Noi di NPC Magazine abbiamo intervistato il regista, Alejo Moguillansky, parlando di cinema (e della sua fine), di El Pampero Cine e dell’umorismo dell’assurdo.
Pin de Fartie, giocare con il cinema
Pin de Fartie, più che essere costruito su una trama, è fatto di immagini e di situazioni, ispirate a uno degli spettacoli teatrali più famosi del drammaturgo dell’assurdo Samuel Beckett, Finale di Partita.
Un cieco e una bambina che fissano un lago che confonde i confini dello spazio. Due attori che si incontrano come amanti per provare una vecchia opera teatrale in un paese del sud. Due anziani che vivono in un bidone della spazzatura di fronte al Congresso di quello stesso paese del sud. Un figlio in un eterno addio all’anziana madre, una pianista cieca condannata a suonare il Chiaro di luna di Beethoven, perché è l’unico pezzo che ricorda ancora a memoria. Due registi, forse responsabili di tutto ciò, che filmano treni e lune e dedicano il loro tempo a un’attività che nessuno sa se esista ancora: il cinema.
Un’insieme di immagini, storie, suggestioni, che moltiplicano le parole scritte dal drammaturgo irlandese in una sorta di caleidoscopio che fa il gioco del cinema. Moguillansky e il team di El Pampero Cine, con Pin de Fartie, arricchiscono la loro produzione con un film che, forse in modo più smaccato di altri loro lavori, riflette sui meccanismi del linguaggio cinematografico, li smonta e li rimonta – la messa a tema di questo meccanismo è evidente nella storyline dei due registi, in cui Moguillansky sfrutta tale cornice mettendo a nudo i processi produttivi dietro alle pratiche del montaggio e della costruzione dei suoni cinematografici.
L’approccio dietro questa riflessione è ludico, non solo per i momenti di comicità dell’assurdo di cui Pin de Fartie è tempestato, ma anche per l’inventiva lieve di determinate soluzioni estetiche. La moltiplicazione delle parole, che fa cogliere le diverse sfaccettature del sentimento di addio messo in evidenza dalle parole di Beckett, consente alla troupe di giocare col e sul mezzo filmico per tastarne non solo il linguaggio, ma anche i limiti – tentando, forse, di superarli.
Con una regia piana ma sempre inventiva, Pin de Fartie è un’opera perfettamente coerente con il lavoro di El Pampero ma che al tempo stesso ne segna una sorta di rottura, forse per la presa di consapevolezza della fine di un mezzo espressivo come il cinema – o forse solo del modo in cui noi oggi lo conosciamo. Il tono più cupo rispetto alle commedia domina, soprattutto in un lungo e malinconico finale, Pin de Fartie, un’opera intelligente che segna un momento di riflessione importante per la settima arte, arrivata oramai ad un bivio di produzione e di espressione.
Beckett, El Pampero Cine e la fine del cinema: intervista ad Alejo Moguillansky
NPC: La prima domanda mi è sorta prima ancora di vedere il film, ed è semplicemente: perché Beckett? Perché Samuel Beckett, e perchè nello specifico Finale di Partita?
AM: Non c’è una buona ragione. Beckett è sempre presente nei film che faccio, spesso nascosto da qualche parte. È in Castro, la mia opera seconda; è anche lì. A volte in modo più diretto, a volte in modo più indiretto. Qui mi piace pensare che non ci sia solo Beckett come testo, ma Beckett come personaggio e come opera teatrale, Finale di Partita, che è un personaggio nel mio film.
Secondo me, quello spettacolo teatrale in questo film è più di un personaggio, come Beethoven è più di un personaggio, come gli attori sono più di un personaggio, come il pianista è più di un personaggio. Sono solo elementi, persone che per qualche ragione il film cerca di ritrarre, perchè il film forse si sta innamorando di quei materiali, o perchè sono parte di qualche orizzonte affettivo con cui il film vuole giocare.
NPC: Com’è nata l’idea nella tua mente di questo film? E come hai scritto, se le hai scritte, le diverse parti del film? Come sono nate le diverse sezioni del film? Il modo in cui adatti, direi, le diverse sezioni del film?
AM: Non penso sia un adattamento. Forse è una citazione, o una sorta di variazione, o in parole più acute, un anagramma. In effetti, il titolo del film è un anagramma di Fin de Partie [titolo originale di Finale di Partita di Beckett, ndr]. È il punto d’inizio, no? È il punto d’inizio di un qualche movimento che il film può o non può prendere. Io spero che lo prenda.
Ma direi che ciò che interessa al film di Finale di Partita è la coreografia di due persone che si dicono addio. Non è un film di addio. Tutte le coppie nel film non si rivedranno più dopo la fine del film. È un lungo addio per tutte loro. Addio tra i personaggio ma anche tra… sento, per esempio, che sia anche un addio all’infanzia della ragazzina. È come rappresentare l’ultimo momento prima che esca di casa. È anche un ritratto dell’anziana signora, Margarita. Ha 29… anzi, in realtà ha 99 anni.
(Credits Aleksander Kalka La Biennale di Venezia – Foto ASAC)
Allo stesso tempo, è un lungo addio, direi, al cinema, alla produzione cinematografica. Non perchè noi [di El Pampero Cine, nda] non faremo più film: li faremo per tutta la nostra vita. Ma il presente del cinema, e il modo in cui il cinema è cambiato da quando siamo stati, per la prima volta, cinefili… è cambiato tanto, no? È cambiato tutto.
Durante la produzione, ho cominciato a capire che il qualche modo il nostro rapporto col cinema è un lungo addio che durerà tutta la nostra vita. Ma è un addio molto lungo. Noi cerchiamo per tutto il tempo, film dopo film, inquadratura dopo inquadratura, di reinventare il cinema affinché non muoia. Diamo il possibile per fare film per far venire il pubblico al cinema, e non solo per i film popolari con la formula regolare, standard per la sala. Cerchiamo sempre di rinnovare il linguaggio. Cerchiamo sempre di capire una possibile via dalla sperimentazione al pubblico.
NPC: L’avrei chiesto dopo, ma già che l’hai citato: il rapporto col pubblico. Il tuo film, come quelli di El Pampero Cine, sono molto giocosi, non direi che non siano accessibili, ma possono essere visti come difficili, soprattutto da un pubblico mainstream…
AM: Pensi che siano difficili? Non so, pensi che Trenque Lauquen di Laura [Citarella, ndr] sia un film difficile? Forse solo per…
NPC: La lunghezza.
AM: La lunghezza, esatto.
NPC: È un qualcosa che non trovo personalmente difficile. Ci trovo una sorta di piacere verso l’arte del cinema, ma forse qualcun altro può trovarlo complesso, anche solo per la lunghezza. La domanda generale verteva però attorno al tuo rapporto col pubblico, se hai un pubblico in mente quando fai un film, e se sì, a che tipo di pubblico pensi?
AM: È una domanda interessante, e non ho una semplice risposta. Direi che cerchiamo di far parlare le persone; i nostri film non seguono le politiche contemporanee, ma inventano una propria politica. Pensiamo che i nostri non siano film che son fatti per coprire certi slot nell’agenda contemporanea e che vadano a confermare rapidamente ciò che qualcuno vuole vedere in un film. Cerchiamo sempre di inquadrare il film, e di creare un rapporto molto onesto con chi guarda il film. Coi film di El Pampero Cine, sento che puoi fare un accordo con il film.
Stiamo parlando di finzione. Stiamo parlando di come trasformare questo in finzione. Stiamo parlando di come far entrare Beethoven in questo spettacolo. E, vedi, il tema dei film di El Pampero Cine è la finzione stessa. Il tema dei film di El Pampero Cine è il linguaggio. Il linguaggio che può essere commedia come può essere tragedia, come nel caso di questo film. Per la prima volta, non è una commedia; è un film molto triste. Anche se ha qualche tocco di humor, non la definirei una commedia. Come tutti i miei film, non direi che sono commedie. Direi che vorremmo che il pubblico parlasse un nuovo linguaggio con noi. È tutto quello che vorremmo.
Vogliamo che le persone non parlino di argomenti, o che abbiano pregiudizi su un film, o che parlino di un film senza averlo visto. Devono vedere i film prima di parlarne. In questo senso, si può parlare di una sorta di milinaza che abbiamo per il cinema. Facciamo parlare le persone di nuovo di cinema! È quello che vogliamo.
NPC: Parlando di El Pampero Cine, non so se ti piace questa definizione, ma la definirei un’utopia del cinema, soprattutto nel modo in cui producete i vostri film: l’assenza di una struttura definita, di una troupe e di ruoli definiti. Volevo chiederti come un film di El Pampero Cine entra in produzione. Come vi organizzate da un punto di vista pratico? E, tornando a quello che hai detto sul vostro rapporto col pubblico e sulla creazione di un nuovo linguaggio, come credi che El Pampero Cine, se lo fa, dialoghi con altre realtà, sia in Argentina sia internazionalmente?
AM: È una buona domanda. Non conosco la risposta. Quello che posso dire è che i film di El Pampero non sono realistici, non hanno a che vedere con i temi dell’agenda contemporanea, non cercano di entrare nella conversazione convenzionale.
Cerchiamo di costruire un nuovo punto di vista. In questo senso, credo che se vuoi essere contemporaneo, non devi essere nella stessa direzione in cui vanno i discorsi standard. Devi andare in altre direzioni; non per forza quelle opposte, ma solo oblique. Non riesco a non pensare ai film di El Pampero Cine come tremendamente contemporanei. Sono così consapevoli e hanno così tanti rapporti col presente; ma non in un modo naturalistico, realistico o psicologico. Questo perchè, come ti dicevo, c’è un accordo tra te e il film. Sai quello che il film sa. Tra te e il film, qualcosa comincia a succedere. Questo è ciò in cui credo.
NPC: Anche se, come avevo accennato, non avete una tipica divisione dei ruoli produttivi a El Pampero Cine, sei principalmente conosciuto come montatore, soprattutto per i lavori di Laura Citarella. La mia domanda è: se ti riconosci come montatore, qual è il tuo rapporto con la regia? Un montatore come si approccia a girare un film?
AM: È una bella domanda. Non penso che il montatore e il regista che ci sono in me siano due persone diverse. È la stessa persona che gira e che monta il film. È lo stesso cervello e lo stesso cuore, quindi è lo stesso.
In questo senso, sì, a El Pampero puoi anche definirmi un produttore. Siamo solo dei filmmaker. In questo senso, il lavoro collettivo, il lavoro di gruppo, la collaborazione ha molto senso. Nei miei film, per esempio, sono un pessimo montatore. Sono un ottimo montatore fino ad un punto che non posso superare. E qui arriva Mariano Llinás [co-fondatore di El Pampero Cine, ndr], per esempio. È sempre Mariano. E faccio esattamente quello che mi chiede di fare nella cabina di montaggio, dandomi completamente ad un altro.
Tutti i film sono realizzati in modo collettivo. Preferiamo questo lavoro collettivo o di gruppo alla parola “autore”. In questo senso, forse si può pensare a El Pampero come una sorta di studio politic.
NPC: In una scena del tuo film, il tuo personaggio va al cinema a vedere Silvia Prieto [film argentino del 1999 per la regia di Martín Rejtman, considerato il punto d’inzio del Nuovo Cinema Argentino, ndr]. Volevo chiederti se c’è un’influenza diretta nel vostro lavoro di quello specifico film, motivo per cui l’hai messo nel film. Anche se avete un vostro linguaggio specifico, come hai già detto, c’è un film, un autore, uno stile che ha influenzato il lavoro di El Pampero?
AM: Non solo uno! Nel caso di Silvia Prieto, Martin era sempre stato una guida, diciamo. È uno dei padri del Nuovo Cinema Argentino. Ed è bello pensare che il Nuovo Cinema Argentino, quando è cominciato alla fine degli anni ’90, è stato in grado di creare una nuova tradizione. Anzi, di rompere la tradizione e di crearne una nuova. E quindi questa nuova tradizione, che è durata per anni, la puoi vedere solo ora come tale, forse non è neanche più così popolare.
Il modo radicale di produrre, la curiosità verso un nuovo linguaggio, l’assenza di psicologia dei suoi personaggi, i modi in cui la politica entra in questi film… Se c’è un Nuovo Cinema Argentino – non solo Martin, ma anche Lucrecia Martel, Pablo Trapero, etc. -, è perchè sono stati in grado di creare film davvero nuovi, di creare una nuova tradizione. E ci piace questa parola, tradizione. È una bella parola. Può essere brutta, ma può anche essere una parola molto bella, tradizione. Dunque questa tradizione – che è la tradizione dello stile, della forma, del moderno – è certamente presente nei film di El Pampero. Apparteniamo a questa tradizione.
NPC: Stavo parlando con un amico al termine della proiezione di Pin de Fartie, e abbiamo discusso di quanto sia difficile portare l’assurdo al cinema: non è qualcosa di usuale, nè di facile da realizzare. Come hai approcciato questo aspetto specifico presente nel film e nel lavoro di Beckett?
AM: È nel senso dell’umorismo. Sono una persona spiritosa. Lo sono al bar, ed è difficile per me, in realtà, parlare seriamente. Forse in questo film, è la prima volta che sono più triste, o più consapevole di una certa tristezza. È ovviamente una conseguenza della situazione politica contemporanea dell’Argentina, della situazione del mondo. Per la prima volta, ciò che ho fatto non è una commedia. Per me è una tragedia. Ha dei tocchi di umorismo, come dicevo, ma è più vicina alla tragedia. Eppure l’assurdo è sempre lì.
Non so, forse è l’opposto. Non capisco come la gente non si lasci coinvolgere dall’umorismo dell’assurdo. Ho visto film di Buster Keaton, di Chaplin, dove l’assurdo è molto presente. E ci realizzano delle battute, e delle scene tristi. Dunque è un modo di sentire, sì. È il senso dell’umorismo che ti approccia all’assurdo. Il tuo approccio all’assurdo viene da dentro.
NPC: El Pampero Cine, come si è detto, è un movimento di e sul cinema. Come ti senti in merito alla salute del cinema? Hai detto che Pin de Fartie è un addio al cinema. Come ti fa sentire?
AM: Ma non è un addio al cinema! È complesso, ma al tempo stesso bello, perchè la nostra relazione col cinema è… pensiamo sempre che il cinema stia per morire. Dagli anni ’60 dicono che il cinema stia morendo. Andiamo fuori di testa per far venire le persone al cinema, e andiamo fuori di testa per rendere il cinema non una semplice imitazione del linguaggio televisivo attraverso le piattaforme. Il cinema ha sempre avuto la capacità di assorbire nuovi linguaggi: ha assorbito la musica, ha assorbito il teatro, l’opera, il balletto, la danza, la pittura. Ma pensiamo che non è stato abile nel copiare la televisione.
È stata la televisione ad aver assorbito il cinema. Dunque questa è una bella battaglia. E non sto parlando male delle piattaforme come sistema produttivo, ma come esse creano un nuovo linguaggio e per come facciano pensare alle persone che non vogliono vedere niente di nuovo. Dunque in questo senso, il nuovo è la parola per noi. È una bella parola che ci descrive.
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