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Venezia 81 – A Man Fell e l’estetizzante sopravvivenza palestinese

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8 minuti di lettura

All’81a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia non sono pochi i film che sentono l’urgenza di parlare delle crisi politiche e umanitarie del presente. A Man Fell, opera seconda del regista sardo Giovanni C. Lorusso, presentato alle Notti Veneziane delle Giornate degli Autori 2024, rientra tra questi. Assieme a un altro film della Selezione Ufficiale, vale a dire Israel Palestine on Swedish TV 1958-1989, il nuovo lavoro di Göran Olsson presentato Fuori Concorso, il film di Lorusso esplora infatti la questione palestinese allo stato odierno, in questo caso specifico mostrando, attraverso una fotografia e una regia molto curata, le condizioni di vita di esuli palestinesi in Libano.

La vita nel microcosmo del Gaza Hospital

Al centro di A Man Fell vi è il Gaza Hospital di Sabra, Beirut, un vecchio ospedale dell’Organizzazione di Liberazione Palestinese divenuto negli anni un luogo di rifugio per le famiglie palestinesi sopravvissute al massacro di Sabra negli anni ’80. Il film racconta la quotidianità all’interno di questo luogo attraverso una giornata nella vita di un giovane abitante dello stabile, l’undicenne Arafat, che passa il suo tempo tra un gioco, delle commissioni per le altre persone residenti e la pura sopravvivenza.

La quotidianità a cui assiste il giovane protagonista di A Man Fell è fatta sia di miseria e povertà – le condizioni di indigenza in cui vivono i residenti del Gaza Hospital sono spesso rimarcate nei luoghi presentati nel film, pieni di sporcizia e di cumuli di vecchi oggetti e nelle stesse condizioni di vita dei personaggi, spesso costretti ad arrangiarsi con ciò che hanno per sopravvivere – sia di piccoli momenti di evasione, rappresentati dalla musica ascoltata al cellulare, una sigaretta, un gioco o da una storia che viaggia veloce tra tutti gli inquilini di un ladro che forse è caduto dal quarto piano del palazzo dopo aver cercato di derubare una donna.

Quello presentato in A Man Fell è a tutti gli effetti un microcosmo di persone e personaggi che vivono all’interno di questo palazzo, ognuno che cerca di sopravvivere come può – ricercando una normalità apparente nei gesti quotidiani, attraverso l’uso di sostanze psicotrope e/o piccole distrazioni di ogni giorni (un pettegolezzo, un pezzo di musica, un disegno).

È proprio in questi gesti, in queste minuzie che è possibile vedere la grande dignità di queste persone ma al tempo stesso la loro necessità di vivere, pure in condizioni così avverse per loro. Nel riprendere queste piccolezze, il regista Lorusso dimostra il proprio interesse nel raccontare e mostrare cosa significhi per la popolazione palestinese vivere in un luogo a essa ostile. Il risultato di questo interesse è un film che ibrida il documentario con una sovrastruttura di finzione, la quale tuttavia – per quanto molto ben concepita in diversi momenti di A Man Fell, non sembra esser stata sfruttata a pieno per comprendere e approfondire le condizioni di vita degli abitanti dell’ospedale.

La fotografia caravaggesca di A Man Fell

Gli elementi di maggiore interesse di A Man Fell sono la regia e la fotografia. Il complesso dell’opera, infatti, è estremamente curato (com’è possibile notare già dal trailer e da queste still del film) da un punto di vista estetico. Inquadrature impeccabili, tagli di luce curati rendono i sessantanove minuti di visione del film sicuramente un’esperienza visiva notevole.

Tra gli elementi più interessanti in questo senso vi sono le finestre, unici veri punti di ingresso della luce all’interno del complesso. Il lavoro svolto in A Man Fell sulle finestre è significativo sia a livello fotografico – la luce che entra da esse, dalla qualità quasi caravaggesca in certe inquadratura, irradia gli ambienti e i personaggi creando giochi chiaroscurali davvero notevoli, inquadrature facilmente leggibili nonostante il dilagare del nero sullo schermo; sia a livello registico e tematico – l’ingresso di queste enormi quantità di luce nei quadri finisce per annullare ciò che si trova fuori da esse: il mondo esterno non riesce ad entrare nel palazzo neanche da una finestra, che nel suo biancore crea un’atmosfera quasi claustrofobica.

Quest’attenzione alla fotografia e all’estetica di A Man Fell, tuttavia, pone inevitabilmente nello spettatore un problema di carattere etico: quanto, infatti, è moralmente giusto mostrare condizioni di vita come quelle ritratte in questo film in maniera estetizzante, ed esteticamente piacevole? Questa domanda non è di certo un interrogativo nuovo tra cinefili, critici e studiosi: proprio quattro anni fa, al Lido, ci si poneva la stessa questione in merito al film di Gianfranco Rosi Notturno, un’altra opera che presenta zone di guerra (sempre in Medio Oriente) in maniera estetizzante.

All’interno della pellicola di Lorusso, la dimensione estetica, come si è già accennato, non ha solo una funzione decorativa ma traduce visivamente anche alcune delle tematiche, delle istanze che la pellicola prende: il chiaroscuro, i tagli di luce delle inquadrature vengono impiegati anche e soprattutto per sottolineare il senso di disagio, per mettere in risalto il senso di claustrofobia vissuto dai personaggi, per amplificare la situazione di precarietà e di invivibilità in cui le persone versano all’interno dell’ex ospedale.

Per quanto dunque il dibattito in merito all’eticità della pellicola è aperto, e sicuramente ciascuno spettatore riuscirà a formarsi una propria opinione in merito, A Man Fell mostra le condizioni di vita della popolazione palestinese, ricorrendo all’immagine cinematografica e all’ibridazione tra documentario e fiction – arrivando anche a sfidare i limiti di ciò che può essere filmato e presentato a livello visivo – per presentare al pubblico una realtà di miseria che spesso non viene raccontata. Un film, quindi, che ci costringe a vedere oltre le immagini televisive e social per comprendere appieno la realtà della tragedia in corso.


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Classe 2001, cinefilo a tempo pieno. Se si aprissero le persone, ci troveremmo dei paesaggi; se si aprisse lui, ci troveremmo un cinema. Ogni febbraio vorrebbe trasferirsi a Berlino, ogni maggio a Cannes, ogni settembre a Venezia; il resto dell'anno lo passa tra un film di Akerman, uno di Campion e uno di Wiseman.

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