Patinato e volutamente eccessivo, Basic Instinct compendia l’attitudine verhoeviana all’ostentazione evidente, strumento d’esplorazione anatomica di corpi “parlanti”, confezionati e usati secondo un’ottica postmoderna. Lungi dal riprodurre la perversione de Il quarto uomo (1983) – qui castrata, senz’altro, dal puritanesimo statunitense – Verhoeven lavora sul sensuale attraverso un uso sapiente della citazione e dei modelli, soggetti spesso a un ribaltamento che ne esaspera le costanti.
L’estetica del riuso
I riferimenti hitchcockiani esplicitamente disvelati puntellano un’estetica del riuso funzionale, volta alla rilettura di stilemi parodiati, spogliati di quella “sacralità” donata loro dal classico. C’è, nell’opera del regista, un istinto di base ad aggiornare il mito – a deformarne i contorni – sancendo una rottura nello schema del thriller e nelle rappresentazioni erotico-pulp. I topoi del poliziesco, rivisitati da uno sguardo europeo, subiscono una manomissione ironico-parodistica, tesa forse allo svuotamento di una struttura chiusa, alla sfilacciatura di un tessuto a maglia.
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Non ha più senso, nell’epoca in cui agisce Verhoeven, immaginare un incidente di trama che tende poi a ricomporsi. Cadute le ideologie, le narrazioni “a tesi”, è la mancanza di soluzioni a dominare la scena. Catherine Tramell (Sharon Stone), sospettata di crimini sessuali, conosce misteriosamente il passato del detective Curren (Michael Douglas). Sotto accusa, orienta ipotesi e sguardi grazie a un gioco di sopraffazione che ribalta i ruoli, trasformando ogni tesi in un irrealistico lack of sense.
Mancanza di realismo
L’incertezza finale (Curren, e con lui lo spettatore, non saprà mai se Tramell è l’assassina) risponde a un desiderio d’erosione stilistica, ma riflette altresì il diniego di categorie precostituite. La soluzione del giallo classico – tanto più a opera dei tutori dell’ordine – implica una visione della realtà irrimediabilmente ottimistica, certo disposta entro forme già date. È impensabile, nel disegno mentale verhoeviano, mantenere saldo lo schema del noir americano e della suspense alla Hitchcock.
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Ne deriva una pellicola fortemente irrealistica (“The movie is not realistic, but most thrillers are not!”[1]), non solo nella sceneggiatura di Joe Eszterhas (a tratti vituperata), ma nelle movenze degli interpreti, negli amplessi carichi di umori che il regista riprende senza stacchi, svecchiando la rappresentazione hollywoodiana del sesso sfumato, intuito dai primi piani.
Il modello della dark lady
Vi è certo un progetto alla base di questo, la volontà di saldare un modello all’estetica anni Novanta di una società ipersessualizzata, certo blandita più che perturbata dall’eros ferino della bionda Catherine. Oltre al lavoro sui colori, “caldi e freddi nella medesima inquadratura“[2], riecheggianti un neon alla Lynch o i technicolor di Sirk, è proprio il personaggio della Stone a incarnare il motivo più sottoposto ad aggiornamento.
Femme fatale d’antica tradizione, conturbante ma non sofferta come i modelli decadenti, essa diviene piuttosto una dark lady di nuova generazione, “determinata […] ad usare ogni arma pur di ottenere e difendere la propria libertà: seduzione, conquista, omicidio, distruzione”[3].
Lo sguardo maschile e il mito di Medusa
Ma è opportuno parlare di libertà? Davvero è possibile considerare Tramell un campione d’emancipazione pienamente e scientemente costruito? Adele Cambria, nel commentare il film, si chiede: “E se avessimo avuto torto noi, incominciando dall’ottima Elena Gianini Benotti di Dalla parte delle bambine, a denunciare le esortazioni a “stare composte” che hanno ossessionato le nostre antiche infanzie?“. Impossibile non concordare quando denuncia l’atteggiamento di “molte giovani donne [che] brandiscono la volgarità della propria immagine […] equivocando sull’autonomia della donna” finendo così “col respingerla all’identica “parte per il tutto” che è radicata nella tradizione del voyeurismo maschile“[4].
La pellicola di Verhoeven declina la virilità frustrata a uso e consumo di un desiderio speculare, parimenti figlio di un’ottica dominante. Il rifiuto dei pre-testi, così attentamente fatto proprio, non scalfisce uno sguardo interiorizzato da secoli. L’ipotesi di Angela Giallongo, secondo la quale l’ombra di Medusa si allunga sull’intera narrazione, conferma non solo il recupero di temi antichi, ma anche il persistere nella memoria di un certo immaginario, costruito sull’equivalenza tra enigma e vulnerabilità. Afferma la studiosa:
Nel film la principale sospettata, mentre incrocia le gambe, nella scena dell’interrogatorio alla centrale di polizia, offre, irridendo gli investigatori ormai indotti in tentazione, il suggestivo, avvampante spettacolo della vulva. Inoltre, il ricorso all’immagine di Medusa sullo schermo televisivo del detective che indaga sul caso esplicita, facendo assaporare agli spettatori un vertiginoso brivido primordiale, l’intreccio fra seduzione, violenti desideri e forza distruttiva[5].
Immaginario e potere
Verhoeven restituisce figurativamente tali aspetti, istituendo un gioco di luci che, nella scena succitata, proietta le ombre non più sul sospettato ma sugli interroganti, metaforicamente tenuti in pugno da uno sguardo che li avvinghia e possiede, smascherandone i pensieri. È un ennesimo rimaneggiamento del noir, un espediente di suspense, eppure si configura come denuncia di conformismo. Questa donna vista dall’uomo ci mostra, incredibilmente, il perpetuarsi di un atavico dispositivo di potere.
Note
[1] Dichiarazione di Paul Verhoeven riportata in L. Baldassarri, Basic Instinct, in “Lo Specchio Scuro”, 26 luglio 2019.
[2] Per una riflessione in materia rimando all’articolo di Baldassarri succitato.
[3] S-H. van Put, Immagini femminili e ideologia patriarcale, in “H-ermes. Journal of Communication”, 7, 2016, p. 271.
[4] Si veda A. Cambria, La volgarità e la dea, in “Noi Donne”, dicembre 1995.[5] A. Giallongo, Emozionanti mostri femminili tra storia e cinema, in “El Futuro del Pasado”, 5, 2014, p. 58.
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