A quattro anni dal loro ultimo lavoro, Guerra e Pace, tornano al Lido Massimo D’Anolfi e Marina Parenti, tra i più radicali cineasti del panorama contemporaneo italiano con il loro ultimo lavoro Bestiari, Erbari, Lapidari, film che prosegue il percorso artistico avviato dalla coppia di sviluppare un cinema libero e radicale, atto a riflettere sull’immagine filmica, sulla sua valenza e sui suoi usi.
Bestiari: il cinema di D’Anolfi e Parenti

Bestiari, Erbari, Lapidari non segue uno sviluppo di tipo narrativo: l’opera è costruita in tre parti, quelle evocate dal titolo, ognuna autonoma e al tempo stesso legata all’altra nella costruzione di un discorso. Il film, come si può intuire dal titolo, è di natura “enciclopedica” – questo richiama infatti testi medioevali che facevano da compendio per il mondo naturale, raccogliendo immagini afferenti a tre diversi elementi della natura: le bestie, le piante, le pietre. Tre universi diversi, che sono tuttavia un pretesto per i registi per riflettere su altro, sulle logiche e dinamiche delle immagini prodotte dagli umani.
In questo senso, il lavoro di Parenti e D’Anolfi si pone in continuità con la loro recente produzione: gli ultimi lavori del duo, infatti, sono opere visive di natura quasi saggistica, filosofica, riflessiva rispetto al senso delle immagini, alla loro produzione, all’immaginario che gli uomini riescono a creare con esse – il già citato Guerra e pace – lungi dall’essere un adattamento del capolavoro di Tolstoj – è un documentario in cui i registi riflettono sulle immagini di guerra e il modo in cui sono state prodotte nel passato, nel presente e nel prossimo futuro.
Con quest’ultimo, Bestiari, Erbari, Lapidari condivide lo stile dei due autori italiani, giunto ormai a maturità: le loro opere son fatte di silenzi, senza voice over, con un incedere lento e meditativo, che vive interamente di montaggio, capace di creare le associazioni mentali che sviluppano il discorso estetico che il film cerca di portare avanti. Un cinema, quello di D’Anolfi e Parenti, dunque, che lavora su elementi di natura cerebrale, non immediata, che richiedono una partecipazione attiva dello spettatore a livello intellettuale ed emotivo; un tipo di cinema difficile, respingente per molti spettatori e cinefili, ma che è anche in grado di donare molto a chi si mette alla prova e si apre ad esso.
Erbari: tripartizione di temi e stili

L’ambizione di Bestiari, Erbari, Lapidari è sicuramente nobile, oltre che molto spiccata: riflettere sul modo di fare, costruire immagini in questo mondo contemporaneo e antropocentrico. Per operare questa riflessione, i registi segmentano il film in tre parti diverse, ognuna delle quali adotta uno stile documentaristico differente.
In Bestiari, attraverso lo stile del found footage, si riflette sui modi in cui si è sempre rappresentato il mondo animale nella storia del cinema; in Erbari si inquadra l’Orto Botanico di Padova e le sue piante con il piglio del documentario d’osservazione – lo stile di documentario tra cui i massimi esponenti compaiono Frederick Wiseman e Wang Bing; in Lapidari si sfrutta il genere del documentario industriale per pensare all’immagine proiettata nel futuro come portatrice di memoria, seguendo una fabbrica di cemento.

Questa tripartizione dell’opera mira a delineare un percorso filosofico e intellettuale che assume un suo senso compiuto solo nella sua interezza, per quanto ogni sezione sia fruibile a sé stante, anche in virtù della differenza di impostazione delle diverse parti. La scelta delle diverse forme documentaristiche risulta funzionale sia ad un’esplorazione, un compendio, un omaggio dei diversi sottogeneri del cinema del reale – spesso nell’opinione pubblica dimenticati quando non proprio ignorati in favore del termine ombrello, ormai un po’ desueto, “documentario” – sia ad una scansione logica e argomentativa del film stesso.
I tre segmenti, uno dopo l’altro, costruiscono una riflessione sull’immagine che si sviluppa anche su un livello temporale: col documentario d’archivio si lavora sul passato, ragionando sulle immagini già prodotte e l’immaginario che riescono a creare; il film di osservazione ragiona sul presente, osservando per l’appunto la realtà nel suo disfarsi; il doc industriale ragiona sulle immagini che verranno prodotte nel futuro, proprio come il cemento prodotto verrà impiegato nel prossimo futuro. Passato, presente, futuro: dimensioni necessarie per pensare al senso delle immagini, alla loro evoluzione e alla possibile rivoluzione richiesta e voluta dai registi.
Lapidari: per un nuovo cinema documentario

La riflessione proposta da Bestiari, Erbari, Lapidari ragiona, nello specifico, sul carattere antropocentrico della rappresentazione: sin dalla prima sezione, il cinema – oltre che l’immagine generale – viene visto come prigione e gabbia per il movimento, rappresentato da immagini risalenti ai primi decenni del Novecento in cui vengono rappresentati animali in diverse condizioni, spesso di prigionia o di sevizia. L’animale, simbolo del puro movimento, viene costretto, ingabbiato nel mondo e nei mezzi che gli uomini hanno costruito, seguendo la propria volontà: come viene anche esplicitato nel testo filmico, questa rappresentazione definisce più l’uomo che l’animale, il potere che la macchina da presa gli dona (paragonabile a quello di un fucile) col quale cerca di addomesticare forze indomabili.
A questa problematizzazione del senso dell’immagine, i due registi di Bestiari, Erbari, Lapidari propongono la sezione erbaria della pellicola: a dominare è il mondo botanico, fatto di ecosistemi in perfetta armonia e bilanciamento in cui l’uomo è una figura marginale. È proprio in questa focalizzazione minima sulla dimensione antropica che si presenta la carica rivoluzionaria di Bestiari, Erbari, Lapidari: un ripensamento radicale del cinema, che cerca forme inedite di rappresentazione, e per farlo decide di dissociarsi dall’unica cosa che accomuna tutta la rappresentazione iconica: la presenza umana.
Nell’ultima sezione, Bestiari, Erbari, Lapidari sembra tuttavia cambiare tono, spostando la propria riflessione su elementi che appaiono più distaccati, sconnessi da ciò che l’opera fino a quel momento aveva cercato di portare avanti: nel ricorso all’immagine del cemento, associata alla storia di persecuzione comunista portata avanti negli anni Venti dal regime fascista, il film tenta una riflessione sul senso dell’immagine come memoria, come oggetto granitico che ha il dovere di rimanere, di imporsi nel tempo per stimolare il ricordo. Una riflessione che, per quanto importante, sicuramente non ha lo stesso impatto e forza delle due precedenti metà, grazie ad un ricorso a metafore visive meno ispirate e originali del resto della pellicola.

Al netto di questa chiusura concettualmente meno forte rispetto al resto del film, Bestiari, Erbari, Lapidari è un’opera di una forza radicale, di una strutturazione e lucidità di pensiero decise ed evidenti, elementi che permettono all’opera di spiccare all’interno della selezione dell’81a Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, la quale ha dimostrato un occhio meno attento del solito alle sperimentazioni, alle radicalizzazioni estetiche (si pensi a April di Dea Kulumbegashvili o Baby Invasion di Harmony Korine), pur di certo presenti, anche se spesso messe in disparte in funzione di un programma più convenzionale e pop del solito.
Bestiari, Erbari, Lapidari si fa dunque portatore di una visione di cinema, sia a livello strutturale sia ad un livello contenutistico decisamente non comune, che richiede anche una partecipazione attiva dello spettatore a livello emotivo e intellettuale: se lo spettatore riesce ad aprirsi a questa esperienza cinematografica impegnativa ma al tempo stesso gratificante, ne uscirà sicuramente arricchito e stimolato.
Seguici su Instagram, Tik Tok, Facebook e Telegram per sapere sempre cosa guardare!
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!
