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Il mio giardino persiano

Il mio giardino persiano, una ribellione d’amore silenziosa a Teheran

14 minuti di lettura

«L’amore è tutto. L’amore è paziente e inesauribile e giusto e può affrontare ogni difficoltà». Così dice il reverendo Lyle, personaggio di Benedizione, romanzo dello scrittore Kent Haruf, a due giovani ragazzi che incontra all’inizio del romanzo e di cui officerà il matrimonio nella cittadina immaginaria di Holt. L’amore è ciò che ci permette di vivere le cose sotto un’altra luce e di provare una libertà mai vissuta finora, ma anche di metterci in gioco fino a cambiare parte di noi stessi.

In un paese in pieno regime come l’Iran sembra quasi impossibile amare liberamente sfidando le convenzioni sociali e le leggi imposte da chi governa, ma c’è chi ci prova correndo tutti i rischi del caso. Lo vediamo in Il mio giardino persiano di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, presentato alla Berlinale 2024 e vincitore del premio della giuria ecumenica e del premio FIPRESCI.

Il mio giardino persiano, uscire dalla solitudine

Il mio giardino persiano è incentrata sulla figura di Mahin (Lily Farhadpour), donna che vive in solitudine in una casa grande con giardino a seguito della morte del marito e del trasferimento dei figli all’estero. Vediamo Mahin nelle sue incursioni solitarie al mercato di Teheran e al coffee shop, ma anche in saltuari pranzi a casa sua con le amiche. È in occasione di uno di questi incontri, però, che Mahin comprende ancora di più quanto sia il momento di uscire dal proprio guscio di solitudine.

Il mio giardino persiano

L’occasione giusta si presenta quando in un ristorante frequentato principalmente da pensionati e lavoratori incontra Faramarz (Esmail Mehrabi), tassista ed ex militare con un divorzio alle spalle e da allora «destinato a vivere da solo». Tuttavia, sarà proprio la protagonista a dare una svolta al destino dell’uomo, regalandosi e regalandogli un’ultima, indimenticabile notte d’amore e desiderio sullo sfondo di un regime intollerante verso chi non accetta di sottostare ai suoi dettami.

Il film attraverso i suoi titoli: Il mio giardino persiano e My Favourite Cake

Il film in italiano si chiama Il mio giardino persiano, mentre all’estero mantiene il titolo originale Keyk-e mahbub-e man, ovvero My Favourite Cake (“la mia torta preferita”). Questa scelta di parole porta il film su un piano affettivo ed emotivo, evidenziando come per i protagonisti sia fondamentale condividere una parte importante di sé con l’altro.

Il titolo italiano Il mio giardino persiano, invece, è più calzante verso quanto i due registi vogliono comunicare, in quanto si vuole porre l’attenzione su una situazione propria dell’Iran rappresentata in piccolo da Mahin e Faramarz, due persone anziane con una vedovanza e un divorzio alle spalle che sono alla disperata ricerca di un modo per confrontarsi con la solitudine, ma che devono farlo quasi in clandestinità per non incorrere ai pregiudizi.

Inoltre, come scrivono i registi nelle note di regia, Il mio giardino persiano si focalizza sulla ricerca della felicità e della libertà e su quanto sia fondamentale coglierne l’occasione appena possibile, soprattutto in tempi difficili come quelli che sta vivendo l’Iran in questo preciso momento storico:

Il popolo iraniano da molti anni è costretto a vedere tristezza e desolazione, e sa che se ha l’opportunità di essere felice, deve apprezzarla fino in fondo. Perché forse quel momento di felicità sarà l’unica opportunità che avrà. Questa è anche una storia sull’importanza di afferrare quel momento.

Il mio giardino persiano: riflessione metacinematografica?

Sempre nelle note di regia, i registi Moghaddan e Sanaeeha comunicano che le credenze e i pregiudizi contro cui lotta Mahin sono «le stesse credenze che proibiscono a scrittori, cineasti e agli storyteller di rappresentare le vere vite delle donne iraniane dietro le porte chiuse». I due cineasti ricordano come abbiano cominciato a girare Il mio giardino persiano in concomitanza con l’omicidio di Mahsa Amini, e di come sia stato difficile girarlo in segreto contravvenendo alle regole del regime iraniano:

Alle donne non è mai stato permesso di avere le loro vite reali raccontate sullo schermo, quelle vite reali che le raffigurano come sono nelle loro case. Questa volta abbiamo deciso di oltrepassare i confini di ciò che è permesso. E accettiamo le conseguenze di questa scelta.

Il mio giardino persiano , i protagonisti durante una cena

Leggendo questa dichiarazione si può capire come sia interpretabile in due modi Il mio giardino persiano: da un lato come film che vuole mostrare la vita di una donna iraniana costretta a vivere in solitudine e a rispettare le rigide regole del regime; dall’altro in chiave metacinematografica con due registi che dopo il loro primo successo di A Ballad of a White Cow continuano a trovare nuovi modi per mettere a nudo il regime iraniano, ma stavolta scegliendo la segretezza e il silenzio dell’intimità di una donna.

La solitudine rumorosa di Mahin

Punto focale di questo film è dunque Mahin, per la quale, come hanno dichiarato i registi stessi, Lily Farhadpour «ha corso un grosso rischio lavorando in questo film» in quanto «non sono molte le attrici del cinema iraniano che accetterebbero di interpretare un ruolo come questo». Questo perché Moghaddam e Sanaeeha hanno voluto mettere a nudo la solitudine di una donna che vive sola senza marito e senza figli, una solitudine, però, rumorosa, perché tenuta nascosta da un regime che vuole che si diffonda una certa idea di donna e che il cinema di Moghaddam e Sanaeeha mette coraggiosamente in luce.

Emblematiche in questo senso sono, ad esempio, le scene in cui Mahin prova ad approcciare un signore in panetteria, il quale le risponde in maniera sgarbata, oppure quando al parco incontra un netturbino e si inventa che sta aspettando che arrivi il marito per passeggiare assieme, ma anche scene che colpiscono per la tristezza della loro solitudine come le chiamate al telefono con Layla, la figlia che vive in Svezia con dei nipoti che nemmeno si avvicinano a salutare la nonna, ma anche la scena in cui, davanti allo specchio, Mahin si trucca per cercare di sembrare più attraente in attesa di un incontro che cambierà la sua situazione.

La solitudine di Mahin non è espressa soltanto attraverso la mimica facciale di Farhadpour, con il suo sguardo sempre triste e desolato che buca lo schermo, ma anche dall’assenza di musiche in sottofondo e dalla prevalenza di scene dove vediamo soltanto la protagonista, spesso al buio, come a voler rendere ancora più forte la solitudine di una donna che non ha scelto questa via, ma che vi è stata costretta dalla realtà in cui vive.

L’Iran che cambia attraverso gli occhi e i ricordi di Mahin e Faramarz

La quotidianità di Mahin non è solo quella di una donna sola che vive sulla propria pelle i pregiudizi e gli stereotipi, ma è anche quella di coloro che vivono e subiscono il tempo che passa e l’evoluzione della società iraniana da dopo la Rivoluzione culturale. A un certo punto di Il mio giardino persiano, infatti, Mahin ricorda di come una volta si poteva andare in giro truccate e con le gonne a fare festa in hotel dove venivano a cantare Albano e Romina quando passavano per Teheran e come ora, invece, si è costretti a indossare l’hijab, veste lunghe e scarpe da ginnastica, segno di come le donne non siano più libere di vestirsi a loro piacimento.

Il mio giardino persiano

Molto interessante è anche la menzione all’alcol, in particolare il vino, quando Mahin invita Faramarz a casa sua. Quest’ultimo racconta di come era solito far fermentare il vino in delle brocche che seppelliva in giardino per non farsi scoprire dai vicini, ma di come abbia smesso per colpa di una moglie molto religiosa da cui poi ha divorziato. Quello del vino è un elemento interessante, in quanto, soprattutto per la poesia persiana, rappresenta la libertà di vivere al di fuori delle regole.

Oltre all’alcol, la dinamica dell’incontro fra i due protagonisti si gioca anche sul versante della musica. Faramarz, per esempio, racconta di come suonasse il tar – uno strumento a sei corde simile al liuto – nelle feste matrimoniali e di come per questo motivo una volta sia stato arrestato dalla polizia morale. Memore di questo aneddoto, allora, Mahin propone all’uomo di ballare sulle note di musiche e canzoni i cui testi sono invisi al regime, a riprova del fatto che la loro è una ribellione silenziosa, ma che fa comunque rumore e vuole arrivare a più persone – in questo caso a più spettatori – possibili.

Il mio giardino persiano: le nostre anime di notte a Teheran

Questa ribellione di Mahin e Faramarz, però, è una ribellione che nasconde dietro di sé una nota di amarezza. Faramarz, infatti, ad un certo punto dice che «nulla dura per sempre». Queste parole possono sembrare banali, ma se si considera quanto detto finora assumono una certa potenza: da un lato abbiamo Mahin che in quanto donna sa che questa sua ribellione può causarle problemi da un momento all’altro, come attirare, ad esempio, l’attenzione dei vicini di casa che potrebbero denunciarla alla polizia morale, mentre dall’altro l’età avanzata dei due gli fa capire l’urgenza del momento.

Il mio giardino persiano

Come amore senile, quello fra Mahin e Faramarz in Il mio giardino persiano può ricordare quello di Addie e Louis in Le nostre anime di notte – romanzo di Kent Haruf, che non per niente è stato citato all’inizio dell’articolo, e trasposto in film da Netflix –, con l’unica differenza che, se quest’ultimi sanno di poter contare l’uno sull’altro, Mahin e Faramarz in fondo sono consapevoli di come la loro potrebbe essere sia la prima che l’ultima notte assieme. Proprio per questo, il loro legame è molto sentito e cercano fino alla fine di aggrapparsi a un momento di felicità che potrebbe durare soltanto una notte.

Un amore sepolto nel giardino persiano

Tirando in ballo la cinematografia iraniana, se Il seme del fico sacro di Mohammad Rasoulof ci mostra una ribellione dal ritmo serrato e violento dove il confronto con la Storia si fa più forte anche attraverso il montaggio di filmati provenienti dalla realtà, Il mio giardino persiano ci mostra una ribellione clandestina, ma visibile agli spettatori, nell’intimità e nel quotidiano a cui la Storia e la sua violenza non possono accedere.

Anche se può sembrare lento e senza grandi colpi di scena, Il film di Moghammad e Sanaeeha commuove mostrando un amore senile silenzioso e clandestino, ma allo stesso tempo ribelle e rumoroso, capace di mostrare il vero volto di un regime che condanna alla repressione di ogni tipo di desiderio di felicità che, anche se effimera, va difesa fino alla fine.


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Laurea magistrale in Lingue e Letterature Europee ed Extraeuropee presso l'Università degli Studi di Milano con tesi in letteratura tedesca e allievo dell'edizione 2021 del Master "Il lavoro editoriale" della Scuola del Libro.
Crede fortemente nel fatto che la letteratura debba non solo costruire ponti per raggiungere e unire le persone, permettendo di acquisire nuovi sguardi sulla realtà, ma anche aiutare ad avere consapevolezza della propria persona e della realtà che la circonda

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