Grazie al digitale, produrre e girare cinema del reale è sempre più facile e accessibile. Questa non è certo una novità nella storia del cinema: da sempre, al migliorare e all’avanzare delle tecnologie di ripresa sono seguiti un aumento della produzione e maggiori sperimentazioni a livello di linguaggio. La rivoluzione digitale, tuttavia, ha in questo senso una portata senza precedenti: l’economicità delle videocamere digitali permette a chiunque, anche a chi non può accedere a mezzi produttivi, di realizzare film e prodotti audiovisivi con costi contenuti. L’opera prima della producer musicale D. Smith Kokomo City, in esclusiva su MUBI, si inserisce proprio all’interno di questo contesto cinematografico.
Kokomo City, attraverso un linguaggio ibrido e ultra-contemporaneo riesce a portare alla luce le storie di una comunità, quella delle persone trans* afroamericane, ancora troppo ignorata nella rappresentazione mediale odierna, permette di mettere ulteriormente in luce la capacità di queste nuove forme di cinema digitale, soprattutto da parte di autori e autrici che fanno parte di comunità marginalizzate, di raccontare e mostrare, attraverso il cinema indipendente, le loro stesse comunità, capaci così di trovare uno spazio all’interno della produzione mondiale per le loro storie, per la loro realtà spesso lasciata ai margini della narrativa.
Raccontare nuovi punti di vista queer e black
Al centro di Kokomo City vi sono quattro sex workers nere e transgender* – Daniella Carter, Liyah Mitchell, Dominique Silver e Koko Da Doll, quest’ultima peraltro tragicamente scomparsa dopo la presentazione del film al Sundance Film Festival – che raccontano la propria esperienza di vita nel settore, la propria visione del mondo, della transessualità, del loro essere nere e dei rapporti che intrattengono con la comunità black di New York e Atlanta, dove vivono e lavorano.
Quella raccontata dalle quattro donne in Kokomo City è una realtà fatta di ingiustizie in una comunità, quella afroamericana, che ben conosce la discriminazione e che storicamente l’ha combattuta – una delle sequenze più pregnanti del film vede proprio un’aspra critica da parte di una delle protagoniste nei confronti della comunità afroamericana del ghetto, in cui i ruoli di genere sono strettamente fissati e difficilmente valicabili.
Una realtà spesso fatta di segreti, perché nella mentalità del hood gli uomini devono essere virili, forti, e non possono dunque mostrare di intrattenere rapporti con le donne trans*; per questo, come raccontano le donne stesse, la maggior parte dei loro clienti sono persone che le frequentano di nascosto, senza che nessuna persona lo sappia. Ma al tempo stesso, è una realtà, quella delle donne al centro della pellicola, fatta di gioia e di realizzazione personale, di orgoglio verso chi si è e verso chi si cerca di diventare.
È proprio questa rimessa al centro di queste prospettive inedite, in fondo, l’obiettivo fondamentale di Kokomo City: in un panorama mediale e narrativo in cui la persona nera e trans* è relegata solo a stereotipi nella sfera del crimine, della prostituzione, del degrado, le storie delle quattro protagoniste gettano nuova luce sull’esperienza nera e trans*, sfidando le narrazioni comuni e le narrazioni ideologiche (dal lato conservatore, ma anche da quello progressista), restituendo un ritratto più vivo, vero e sfaccettato di una vita ai margini, fatta di contraddizioni e di possibilità, di autodeterminazione e di gioia.
Il cinema del reale tra ibridazione e personalità
Contrapposto alla schietta brutalità delle parole delle protagoniste, il lavoro sull’immagine portato avanti in Kokomo City opera all’interno delle tendenze del cinema del reale contemporaneo, fatto di ibridazione di linguaggi.
Come già accennato, infatti, D. Smith, l’autrice del film, proviene dal mondo della musica: nominata ai Grammy per il suo lavoro come producer sull’album The Carter III di Lil Wayne, l’artista è stata in seguito ripudiata dal mondo musicale dopo il suo coming out come persona trans*. Nonostante questa violenta fuoriuscita dal mondo della musica, però, è evidente come il suo linguaggio sia ancora molto sentito e quanta influenza esso abbia sul suo lavoro.
L’influenza dell’estetica del videoclip, infatti, è molto evidente in Kokomo City: dal bianco e nero digitale estremamente accentuato e saturato – arrivando addirittura a delle inquadrature “bruciate”, irradiate dalla luce bianca per far risaltare le proprie protagoniste al centro delle stesse – al montaggio che affianca, in libere associazioni, le interviste con immagini altre, extradiegetiche rispetto all’oggetto del racconto, spesso per rendere visibili concetti, sentimenti e stati d’animo raccontati dalle parole. Questa visualizzazione delle parole pronunciate e questa radicale estetizzazione della fotografia si possono rintracciare e far risalire proprio al linguaggio del videoclip.
Tale ibridazione di linguaggi non solo risulta molto contemporanea, in linea con le tendenze odierne del cinema del reale – si pensi anche solo a film come Flee, Casting JonBanet, i film di Lance Oppenheim come Some kind of Heaven e Spermworld, che mescolano linguaggi assai diversi tra loro come la narrativa, l’animazione, il documentario e la videoarte – ma allo stesso tempo consente all’opera nel suo complesso di diventare accessibile e leggibile ad un vasto pubblico. Oltre alla dimensione estetica, infatti, Kokomo City eredita dal videoclip anche il ritmo, il tempo, la velocità che sono proprie di questa forma audiovisiva.
L’eredità estetica del videoclip, dunque, permette al prodotto finito non solo di essere più godibile – il ritmo che Kokomo City assume è molto veloce, molto vivace, atto a mantenere l’attenzione costantemente alta, non sacrificando la godibilità dell’opera, ma anzi rendendola ancora più densa e più viva proprio per le associazioni che riesce a creare e la velocità con cui si muove – ma al tempo stesso di risultare specifico e personale per la sua regista, in quanto sintesi della sua vita, dei suoi interessi e del suo universo estetico di riferimento.
Kokomo City dunque riesce a rimanere fedele al linguaggio e all’espressione propria della sua autrice e del genere cinematografico in cui opera, rimanendo al tempo stesso capace di dare risalto storie di vita distanti (almeno in parte) dalla propria, esaltandole e rendendole ancora più vive.
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