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Psycho Anthony Perkins

Come sono i sequel di Psycho di cui non sapevi l’esistenza

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10 minuti di lettura

 Provo molto affetto e simpatia per Norman Bates, così pure il pubblico credo. Non è solo un mostro, è un’anima in pena. Il vero segreto di ‘Psycho’ e del sequel è che si tratta di tragedie innanzitutto e solo in seconda battuta di film horror.

Era il 16 giugno del 1960 quando per la prima volta in un cinema statunitense, alla premiere avvenuta a New York, veniva proiettato forse il più grande film sperimentale della storia, ovvero Psycho, diretto e prodotto da Alfred Hitchcock. Nato sotto una cattiva stella: poco budget (800 000 $), tempi stretti, un soggetto “orribile”, protagonisti “insignificanti”. Alla fine però il film è riuscito a marcare in modo indelebile il corso della storia del cinema. Un’opera pura che riesce ancora oggi, a distanza di 62 anni dall’uscita, ad avere un effetto sul pubblico. Unica nel suo genere. Un trattato di cinema vero piuttosto che un mero lungometraggio. Un film sul quale si è molto discusso, scritto e chiacchierato; troppo forse si è detto sulla panoramica iniziale, sulla sensualità della prima scena, la fuga, la pioggia, la doccia, la psiche ecc. che ogni altra aggiunta risulterebbe superflua; quindi, in questo caso, è meglio tacere.

È necessario, però, avanzare un solo appunto. Psycho è stata la madre di diversi surrogati: i film televisivi Il motel della paura del 1987 e Psycho IV del 1990, il remake ‘shot-for-shot’ del 1998 diretto da Gus Van Sant e la serie Bates Motel, tutti (giustamente) oscurati dal successo e dalla bellezza dell’originale. Ciò che a noi interessa sono gli altri due ‘orfanelli’ dimenticati, il secondo e il terzo della serie, entrambi interpretati da Anthony Perkins, il quale nel III veste anche i panni del regista; appunto: Psycho II del 1983 e Psycho III del 1986.

Psycho II: il ritorno di Norman e della “vera Madre”

It’s 22 years later, and Norman Bates is coming home.

tagline del film

I motivi della non-riuscita di queste opere, nonostante alcuni spunti visivi interessanti, sono evidenti: trame sciatte che non hanno avuto la fortuna di essere sostenute da autori come Hitchcock. Psycho II però, in qualche modo, si libera dalle sfortune dei suoi successori. Diretto da Richard Franklin (apostolo di Alfred H.), sceneggiatura di Tom Holland, cast di alto livello, Jerry Goldsmith (premio oscar nel ’77 per Lo Squalo) alle musiche, e un successo al botteghino che ha portato nelle casse della Universal più di 34 milioni di dollari

Sono passati 22 anni dall’internamento di Norman Bates nell’istituto psichiatrico, 22 anni dalla scoperta degli omicidi, del “morboso” rapporto con la ‘madre’ e della sua malattia psichica. Norman viene dichiarato sano e viene liberato. Torna al motel dove fa conoscenza con la nuova gestione, viene reintegrato nella società e inizia a lavorare nella tavola calda della signora Emma Spool dove lega profondamente con Mary, una sua collega. I suoi fantasmi però sembrano essere tornati a infestargli la mente (e non solo). Cominciano infatti ad arrivare alcuni segnali dalla “Madre” e Norman inizia a credere di non essere guarito veramente. A peggiorare la situazione iniziano i primi omicidi, tutti misteriosi, tutti coperti da un alone mistico e apparentemente irrisolvibili. Norman, seppur inizi a dubitare di sé stesso, è sempre protetto da un alibi di ferro. Qualcuno vuole portarlo di nuovo alla pazzia? Soltanto una persona in realtà tiene veramente a Norman, la sua “vera Madre”.

Psycho II, che nulla ha a che vedere con il omonimo libro di Robert Bloch, è un dichiarato omaggio al precedente e al suo autore. Molti sono i richiami all’opera prima, molti sono i rifacimenti a Hitchcock, a partire dalla costruzione della suspense, che viene spezzata (forse non sempre al momento giusto) da un susseguirsi di colpi di scena (sempre più avvincenti).

L’apice si raggiunge con il rovesciamento di tutti i fronti, Norman Bates questa volta è davvero innocente, e questo, a dire il vero, ci lascia con l’amaro in bocca. Il nostro “eroe” sembra guarito e non riesce a ripetersi, superato da due personaggi minori. Tutto è perduto, la vera natura di Psycho è smarrita, anzi: viene tradita. Assistiamo a tutti gli effetti al tradimento della realtà del film. Ma è qui, quando tutto sembrava sprecato, che si fa sentire la scuola hitchcockiana. Suspense, colpo di scena, cambio di fronte, e tutto torna in ordine.

Psycho III: l’occhio che dirige, la mano che uccide 

È il 1986 e Anthony Perkins torna nei panni di Norman Bates.Anche questa volta la storia non ha nulla a che vedere con il romanzo Psycho House di Bloch, terzo romanzo dello scrittore statunitense che vede come protagonista il Bates Motel, che uscirà in seguito nel 1990. Abbandonati i toni splatter del film precedente, Perkins torna alle origini, al mito. Tensione che si taglia col coltello, costruita (soprattutto) dai lenti movimenti di macchina, chiaroscuri (gli è negato il bianco e nero dalla Universal) a modellare le folli e disturbanti espressioni del protagonista, il quale è tornato al proprio posto, nel proprio motel.

In effetti molti sono i ritorni, come la famosa scena della doccia, che qui ha una svolta abbastanza alternativa. Psycho III, the most shocking of them all come suggerisce il poster. 

In questo capitolo della saga, che si svolge solamente un mese dopo gli avvenimenti precedenti, Norman Bates ritrova il vecchio motel di famiglia (dove ha ricominciato a lavorare), rivede Marion Crane, si innamora e viene lasciato, si innamora di nuovo ma rimane solo, continua a conservare il corpo imbalsamato della “vera Madre” (la quale sembra essere più viva che mai), e fa ciò che gli riesce meglio. Assiste, e assistiamo, alla sua vera storia e veniamo accompagnati fino all’apparente chiusura del cerchio.

But I’ll be free… I’ll finally be free”.

Il film, che segna la prima prova registica di Perkins, risulta quello con meno incassi della trilogia. È evidente come si sia perso quell’appeal con il pubblico. I colpi di scena mancano. La sceneggiatura pecca di “violenza”, è molle, annacquata. È qui il regista/attore che cerca di tenere a galla il lavoro. Da dietro egli dirige con cura e precisione i movimenti, le semplici inquadrature, strizzando spesso l’occhio verso Hitchcock e il suo Psycho del 1960. Dall’altra parte invece, davanti alla camera, il protagonista (come sempre) interpreta la propria parte in maniera meticolosa, coerente alle due prove precedenti. Norman è matto e così diventa anche Anthony.

La visione del regista è essenziale, corretta per il proprio obiettivo. Tutto è preciso, le altezze delle inquadrature, i movimenti, il taglio. È la tradizione della saga che guida la regia, ma è l’occhio di Perkins che dirige

Il lavoro dell’attore, invece, è un lavoro fisico, facciale. È fondato sulle espressioni, qui come in Psycho, a volte gentili, altre squilibrate. Tutto si gioca anche sulle mani del protagonista, sul pugnale e le pugnalate. Si sa, la mano uccide

A volte succede che un capolavoro che dovrebbe rimanere unico, abbia dei simili; e a volte succede che i suoi simili non facciano poi così tanto schifo (almeno per questa volta).

Articolo di Lorenzo Fiorentino


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