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Un'immagine tratta dal film "Simone Veil - La donna del secolo" di Oliver Dahan.

Simone Veil – La donna del secolo, quando l’attrito con la Storia si trasforma in memoria da perdonare

11 minuti di lettura

Siamo diventati genitori, nonni, anche bisnonni. La maggior parte di noi è scomparsa. Presto si spegnerà quella generazione che non doveva sopravvivere, arriverà anche il momento in cui coloro che ci hanno fatto delle domande scompariranno a loro volta. I libri saranno gli unici depositari della memoria. Non saranno le informazioni a mancare, ma il contatto unico, insostituibile, sconvolgente di colui che dirà: io c’ero, è successo.

Simone Veil – La donna del secolo, Olivier Dahan

Acqua che abbraccia, acqua che avvolge, acqua che sommerge. Una donna guarda il mare, chiude gli occhi per un istante, poi li riapre e inizia a scrivere. L’inchiostro scivola sulla pagina bianca come il tempo, s’ingarbuglia come la memoria, si contrae e si distende come la marea. È Simone Veil e maman è l’ultima parola della bozza della sua vita.

A raccontare la sua storia – dopo aver raccontato quella di Edith Piaf in La Vie en rose (2007) e di Grace Kelly in Grace of Monaco (2014) – è Olivier Dahan in Simone Veil – La donna del secolo, biopic distribuito nelle sale cinematografiche francesi nell’ottobre 2022 e in quelle italiane il 30 gennaio 2025. Il ritratto di una donna, ma soprattutto il viaggio dentro un secolo, perché la vicenda esistenziale di Simone Veil – dalla sua nascita nel 1927 alla sua morte nel 2017 – si dipana attraverso il 900, attraverso l’Europa e attraverso la Storia.

Simone Veil – La donna del secolo, il ritratto di una donna tra oblio e riconciliazione

Un'immagine tratta dal film Simone Veil - La donna del secolo di Olivier Dahan con Elsa Zylberstein.

78651. Una sequenza di numeri impressa sulla pelle da imparare a memoria. Un solo imperativo: dimentica il tuo nome. Dimentica il tuo volto, dimentica il tuo corpo, dimentica la casa in cui hai abitato per 16 anni. Dimentica gli occhi di tua madre, la voce di tuo padre e il sorriso di tua sorella, dimentica il colore del mare, dimentica le ferite del cielo. Dimentica chi hai sempre detto di voler diventare, dove hai sempre sognato di vivere, i regali che hai ricevuto il giorno del tuo ultimo compleanno e quelli che non riceverai più.

Dimentica il rumore delle foglie calpestate nel bosco, dimentica le parole che hai affidato al vento, dimentica tutte le volte che hai abbracciato un albero. Dimentica il primo libro che hai letto da bambina, quando la stanza diventava il mondo, dimentica tutti i libri che hai letto. Anzi, no, i libri non dimenticarli mai. 78651 è la sequenza di numeri impressa sulla pelle di Simone Veil nel 1944, quando viene deportata ad Auschwitz con la madre e la sorella. Sopravviverà, tornerà in Francia nell’aprile del ’45, ma non dimenticherà.

Ma chi è Simone Veil – dopo ? A 19 anni è una donna brillante, studiosa, estremamente intelligente e profondamente ambiziosa; la sua vita è una matassa che si ingarbuglia solo di notte, ma Simone sceglie di districarla con cura ripartendo proprio dai libri, iscrivendosi alla Facoltà di Scienze Politiche, dove incontra Antoine Veil, suo futuro marito, e diventando magistrata. Nel 1970 è la prima donna segretaria generale del Consiglio superiore della magistratura, nel 1974 è nominata Ministro della Salute e nel 1979 prima Presidente donna del Parlamento europeo.

Simone Veil indaga la zona grigia del diritto, il vuoto del diritto; lotta per i diritti delle donne, ottenendo nel 1975 l’approvazione della Legge Veil sulla depenalizzazione dell’aborto in Francia, dei detenuti e delle detenute nelle carceri di Algeri, dei malati di AIDS. Ciò che la muove è una rabbia muta, una rabbia che si ripiega su se stessa, che si attorciglia senza lasciare scampo, ma soprattutto la consapevolezza di essere “una spina nella memoria collettiva”, di “essere sopravvissuta per essere ridotta al silenzio”.

“Il fatto di aver ricostruito l’Europa mi ha riconciliata col ventesimo secolo”, scrive alla fine, e non può che essere così.

Il cinema di Olivier Dahan tra pedinamenti, doppia esposizione e “rime di colori, suoni, parole”

L'esperienza della prigionia ad Auschwitz: una scena tratta dal film Simone Veil - La donna del secolo di Olivier Dahan.

Quello realizzato da Olivier Dahan in Simone Veil – La donna del secolo è un ritratto intimo, profondo, intenso. La macchina da presa riprende i volti in primo piano, talvolta in primissimo piano, come se fosse una lente di ingrandimento sui sentimenti, sul dolore; gira intorno ai corpi con movimenti sinuosi e di tanto in tanto vorticosi, pedina i personaggi, li insegue, non li cattura quasi mai di spalle, lascia lo sfondo sullo sfondo, lontano.

Il racconto non è mai affidato al silenzio, ma al suo opposto, vale a dire alla musica, composta da Olvon Yacob: semicrome di archi e di un pianoforte, che si ripetono nella loro ridondanza, nella loro incommensurabilità, sempre uguali, sempre più rumorose, sempre più in grado di rendere visibile l’invisibile. Volti e occhi e sguardi si sovrappongono in doppia esposizione, e i raccordi tra le scene sono lacci che uniscono il passato al presente; il più significativo è quello di una caduta con Simone che cade da bambina nel bosco e Simone che cade durante la lunga Marcia della Morte.

“Non sono dei flashback o dei flashforward, ma rime. Rime di colori, suoni, parole “, ha dichiarato il regista.

Simone Veil e Simone Weil, due storie che si intrecciano?

Simone Veil ritorna ad Auschwitz: una scena tratta dal film Simone Veil - La donna del secolo di Olivier Dahan.

“Il vero eroe, il vero soggetto, il centro dell’Iliade è la forza. La forza usata dagli uomini, la forza che sottomette gli uomini, davanti alla quale la carne degli uomini si ritrae. Chi aveva sognato che, grazie al progresso, la forza degli uomini appartenesse ormai al passato, ha potuto scorgere in questo poema solo un documento; chi invece, oggi come allora, individua nella forza il centro di ogni storia umana, trova qui il più bello, il più puro degli specchi. La forza rende chiunque le è sottomesso pari a una cosa. Esercitata fino in fondo fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale del termine, poiché lo rende cadavere. C’era qualcuno e, un istante dopo, non c’è più nessuno”.

È Simone Weil – e non Simone Veil – a scrivere queste parole, contenute nel saggio L’iliade o il poema della forza, pubblicato per la prima volta nel 1940, tre anni prima della sua morte. Le due donne condividono il medesimo nome, quasi anche il medesimo cognome. Le loro storie non si intrecciano mai, ma le loro parole sì.

Simone Weil, definita “la santa degli esclusi” da Andrè Gide, nasce a Parigi 18 anni prima di Simone Veil, nel 1909, in una famiglia ebrea. Studia Filosofia, si innamora del pensiero greco, è convinta di potersi mettere “al posto di quanti erano vittime di un’oppressione”. A causa delle persecuzioni naziste contro gli ebrei francesi si rifugia dapprima a Marsiglia, poi a New York, infine in Inghilterra, dove si avvicina alla Resistenza.

Quando scrive L’iliade o il poema della forza, Simone Weil sa che il poema omerico è una metafora della guerra; la sua lettura dell’Iliade è una lettura del e sul mondo, del suo tempo, del totalitarismo. Scrive che “c’è qualcosa di sacro in ogni uomo, ma non è la sua persona nè la personalità: è l’impersonale che c’è in lui”. Dal 1940 al 1942 affida i suoi pensieri alle pagine di un diario, che prenderà poi il titolo di L’ombra e la grazia, che è una bozza della sua vita, come quella che Simone Veil scrive seduta davanti al mare.

L’esistenza di Simone Veil e quella di Simone Weil sono sconvolte dall’attrito con la Storia, che per Weil altro non è se non “una compilazione delle deposizioni fatte dagli assassini circa le loro vittime e se stessi” e per Veil non può che essere contrapposta alla memoria, che si distingue dalla Storia perchè “designa una relazione personale con un evento del passato”. Eppure “l’esistenza è senza memoria; di ciò che scompare non conserva nulla, nemmeno un ricordo”. A scriverlo non è Simone Veil nè Simone Weil, ma Sartre.

In che modo le parole di Sartre si intrecciano con quelle di Veil e Weil? La risposta è in un racconto scritto da Sartre nel Natale del 1940 per i suoi compagni di prigionia nel campo di Treviri, intitolato Bariona o il gioco del dolore e della speranza, che contiene un invito a resistere, a guardare il cielo stellato, a credere che la realtà possa sempre essere modificata attraverso l’immaginazione, quella stessa immaginazione che Simone Weil definisce “riempitiva”, perché in grado di riempire il vuoto.

Se si accetta qualunque vuoto, che colpo della sorte può impedire di amare l’universo? Si è sicuri che, qualunque cosa capiti, l’universo è pieno.

– Simone Weil, L’ombra e la grazia


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Classe 2003, studentessa di Letteratura Musica Spettacolo all'Università La Sapienza di Roma. Dolcemente nostalgica, ho iniziato a raccontare storie a 2 anni e da allora non ho mai smesso. Amo il cinema e la letteratura, colleziono tramonti, la mia mente è un film di Nanni Moretti.

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