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Skinamarink, sottotitolare il silenzio

7 minuti di lettura

Se l’horror gioca il suo statuto di genere nel rapporto tra visibile e invisibile, Skinamarink (2022) vive nell’entre-deux: sulla soglia di una semioscurità perenne, in un brusio digitale di dead pixel. Kyle Edward Ball non segue le dinamiche del rapporto dicotomico/economico tra celato e manifesto, impegnandosi piuttosto a plasmare un’atmosfera fatta di immagini traslucide – né leggibili, né insensate – che trasmetta lo spaesamento costante, il terrore infantile del buio. Senza suspense o jump scares. Un artefatto sinistro capace di interrogare le coordinate di genere e, più in generale, quelle dell’audiovisivo tout court.

Più che di trama, si dovrebbe parlare di situazione: i piccoli Kevin (Lucas Paul) e Kaylee (Dali Rose Tetreault), fratello e sorella, si svegliano nel cuore della notte scoprendo che loro padre è scomparso. Insieme a lui stanno svanendo tutte le porte e le finestre della casa, che il buio – e una misteriosa presenza – sta divorando dall’interno. Nient’altro. Non c’è, infatti, pressoché nulla da vedere.

Skinamarink, il buio e l’assenza dell’uomo

figura 1 Skinamarink

Produzione low bugdet stilisticamente audace, Ball punta ad uno scavalcamento dell’antropocentrismo cinematografico, impedendoci la visione netta delle figure umane che abitano Skinamarink solo in forma di spettri acusmatici e – con intelligenza registica – negando la convenzionale scala dei piani e l’abituale assetto compositivo che le corrisponde, entrambe modellate proprio a partire dalla figura umana. Lo spazio visuale di Skinamarink non è semplicemente deprivato della presenza umana: è dis-umano in partenza. E questo vale tanto per lo spazio singolo dell’inquadratura, che mai corrisponde a uno schema compositivo a favore del corpo umano che s’ipotizza dovrebbe abitarlo; sia per lo spazio complessivo, (de)costruito da un decoupage che forclude la coerenza tra un ambiente e quello che lo succede o precede in montaggio.

Pur essendo girato in un unico interno (la casa d’infanzia dello stesso regista), Skinamarink non ci fa mai sentire a nostro agio, scaraventandoci a ogni taglio di montaggio nell’abisso di un illogico labirinto privo di coordinate, fatto di anonime porzioni architettoniche che non collimano in una planimetria coerente.
L’abitazione – il dominio privato proprio alla figura antropica – è smantellata dalle fondamenta, la sua funzionalità è bruciata dal fuoco nero dell’incubo. Porte e finestre cambiano collocazione, scompaiono; gli oggetti hanno vita propria; il tempo si dilata in una prigionia senza sbocchi. Siamo in una Backroom.

La realizzazione di Skinamarink, fotografia e suono

Per descrivere la fotografia di Jamie McRae in Skinamarink si è ricorsi alla nozione di «digital impressionism», ossia di una riscoperta – tramite le possibilità del digitale – delle qualità figurali dell’impressionismo pittorico. A maggiorare l’indefinitezza di figure e oggetti, data dal buio in cui è gettata la casa di Kevin e Kaylee, interviene il noise digitale. Impostando ai massimi livelli di ISO la sensibilità della sua Sony FX 6, McRae non nasconde l’artificio tecnologico, ma anzi ne esalta l’imprecisione, la corporeità. L’immagine pulsa continuamente, come avesse vita propria.

Il soundscape schelettricamente spoglio, composto di lunghi silenzi e rumori ambientali, rimanda a a sua volta all’idea di una texture statica, pressoché priva di sbalzi, dislivelli volumetrici. Anche sul piano sonoro Ball rinnega la dicotomia, in questo caso tra udibile/inudibile, abitando scomodamente la soglia del quasi udibile. Poco più che silenzio.

Scena di Skinamarink (2022), con sottotitolo "come upstairs"

Sottotitolo come arte

Se, congiunte, colonna sonora e visiva si configurano come il luogo deputato ad una riflessione audio-visuale sull’estetica, è attraverso la traccia dei sottotitoli – spazio ambiguo, interno ed esterno al film – che Ball scopre la possibilità una riflessione diretta sulla scrittura, sull’emergere e lo sprofondare del linguaggio dal e nel non-senso. Sul corpo stesso della lingua: strumento principe del dominio antropico, suo orizzonte di possibilità.

I personaggi di Skinamarink, sempre fuori campo, non imbastiscono mai tra loro un dialogo organico. Per rendere leggibili le loro parole – spesso sussurrate, ovattate, o distorte e quasi inudibili – ricorre con frequenza alla sottotitolazione. Laddove la lingua sfuma nel rumore, dove il soggetto collassa, ecco una sovraimposizione testuale venirci in soccorso. Il sottotitolo si configura come il punto di convergenza tra necessaria incomprensione e necessità di comprendere, come spazio liminale a tutti gli effetti.

Ma Ball spinge l’arte della sottotitolazione oltre i suoi confini di mera funzionalità: immaginiamo la situazione, assolutamente perturbante, in cui il testo appare sullo schermo senza che alcuna voce ne abbia legittimato la necessità. O, viceversa, che a quanto percepiamo come voce non corrisponda alcun testo chiarificatore. Quanto pensiamo essere silenzio o mero, insignificante rumore, si tramuta in parola; quanto crediamo essere logos – per quanto danneggiato e malconcio – non è che brusio. Il senso cade inesausto in deliquio, rovesciandosi nel suo contrario. Ci troviamo a brancolare nella semioscurità perturbante dell’ipnagogia. Gli occhi socchiusi dal terrore.

L’utilizzo dei sottotitoli in Skinamarink sintetizza tutta l’operazione di Ball, mostrando nell’evidenza della scrittura la labile permeabilità tra visibile e invisibile, irresolubilmente agglomerati. Sono le facoltà spettatoriali a essere chiamate in causa, per riempire gli spazi vuoti, disegnare le proprie paure su una tela buia.

Scena di Skinamarink (2022) con sottotitolo "go to sleep"

Articolo a cura di Niccolò Buttigliero


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