Un passo avanti e due indietro, ma senza tralasciare nulla. Ecco come andrà a svilupparsi questo secondo frammento (qui potete leggere la prima parte). Citazioni leniniste a parte, il viaggio attraverso i linguaggi di due dei protagonisti più influenti degli ultimi cinquant’anni prosegue con soluzione di continuità. Passando dal primo cortometraggio del regista al suo gangster movie più moderno, l’ultimo ad includere l’indimenticabile arte sonora dei Rolling Stones.
«The Big Shave», il sessantotto e gli anni della guerra
Ripartiamo quindi dall’inizio della carriera del regista newyorkese. Era la seconda metà degli anni sessanta e Martin Scorsese, studente costantemente alla ricerca di un’occasione per esprimere la sua “vena” artistica, iniziò a dedicarsi alla scrittura di diverse sceneggiature, pronto ad emergere per affermarsi come regista e autore, in un periodo di crescente fermento hippie.
Scorsese non era sicuramene un figlio dei fiori, ma di una Little Italy poco accogliente. Lo si potrebbe definire un outsider di un paese che in quegli anni stava proseguendo uniformemente verso un’unica direzione, quella della rivolta socio-culturale del Sessantotto. Quel periodo così intenso fu il fertilizzante giusto per la sbocciatura di nuovi talenti ed artisti emergenti, alcuni dei quali si tramutarono nei più grandi di sempre. Tra tutti, Martin Scorsese e la sua indomabile voglia di raccontare una patria fondata sul sangue.
The Big Shave (La grande rasatura) è un cortometraggio di 5 minuti e mezzo del 1967, uno dei primi cortometraggi ufficiali del maestro americano, seguito dal film Chi sta bussando alla mia porta, sempre del ’67. Un corto piuttosto semplice, che ricorda in qualche modo i video artistici alla Andy Warhol. All’interno di questa breve pellicola non è possibile udire alcuna chitarra graffiante né riff alla Rolling Stones, ma nasconde un filo che accomuna entrambi.
Il corto sprofonda tra le note di Bunny Berigan, condotte dalla pacatezza con cui un giovane si rade (con conseguenze macabre, autolesionistiche) ed una regia che oscilla tra lo spot televisivo e la Nouvelle Vague francese. The Big Shave non ha nulla di concreto da condividere con la già famosa band britannica, ma parallelamente ad essa avanza uno sguardo di protesta nei confronti dell’autodistruzione umana e di una nazione che da anni affrontava la guerra con la stessa nonchalance con cui il protagonista si rade la barba, ferendosi a morte.
«Let It Bleed», una ferita che non si rimargina
A pochi mesi di distanza dalla storica data che indica lo scioglimento dei Beatles, i Rolling Stones pubblicarono, nel dicembre del 1969, il loro album discografico più crudo e musicalmente violento, Let It Bleed. Quell’anno, oltre a rappresentare l’ultimo tassello di un decennio rivoluzionario su tutti gli aspetti, fu anche un momento storico cruciale per lo sviluppo degli anni a venire.
Il 1969 lo conosciamo tutti, soprattutto grazie allo splendido Once Upon a Time… In Hollywood di Quentin Tarantino (grande ammiratore di Scorsese), che, oltre a risaltare i personaggi di un “mondo perduto” e di una Hollywood decadente, conserva attimi di grande estasi musicale, grazie alla riesumazione di tracce del panorama rock classico. Tra le tante, proprio i Rolling Stones, con il brano Out of Time del 1966.
La finzione cinematografica era ormai un modo sconsolato per guardare al presente. Il cinema commerciale americano si stava indebolento per paura di contrastare la già infuriata guerra in Vietnam, tema assai scottante. Le fiammate del “drago” di Rick Dalton, protagonista del film di Tarantino, nel fittizio The 14 Fists of McCluskey (1966) non sono altro che il sentore delle vere lingue di fuoco che da anni annientavano i campi di battaglia del sud-est asiatico. Per tutti i futuri registi in cerca di nuovi spunti e attori ambiziosi, l’Europa poteva rappresentare la salvezza o, per lo meno, una speranza non troppo lontana.
La musica era l’unica forma d’arte (forse perché più popolare) che non aveva bisogno di migrare per continuare a resistere, capace di aprire gli occhi sulle disgrazie di cui l’intero paese si stava macchiando, e se una ferita cercava di rimarginarsi, ecco che automaticamente veniva riaperta.
Let It Bleed è un’ opera complessa, un album unico, perverso a tal punto da sembrare apocalittico. Un pezzo di storia che non è un inno alla violenza ma un grave sintomo della disperazione. Così come poteva essere la controparte “total white” della band, sempre meno amabile e più distorta, di Liverpool. Un traguardo discografico, frutto di un dolore crescente che da qualche anno accompagnava i membri degli Stones. Non erano solo i drammi sociali esterni ad impregnare le note dark dell’album, ma in primis le relazioni interpersonali.
La precipitosa discesa delle “pietre rotolanti” sfociò, quell’anno, in un sonoro tonfo che si concretizzò con la tragica morte di Brian Jones. Jones fu il componente più dedito alla sperimentazione musicale del gruppo, il quale, proprio durante la creazione di quest’ultimo album, venne allontanato a causa di screzi ed un uso eccessivo di sostanze stupefacenti. Il suo corpo fu trovato privo di vita nella sua piscina il 3 luglio 1969, all’età di 27 anni. Furono tempi duri per la band. Intanto la “summer of love” era alle porte e l’eco dei più grandi musicisti d’America non si fece attendere. In che modo? Ovviamente con il festival di Woodstock, al quale, però, gli Stones non parteciparono.
Nel marzo del 1970 venne distribuito il documentario Woodstock – Tre giorni di pace, amore e musica, vincitore del premio Oscar nel ’71. La pellicola coronò la già avviata carriera cinematografica e, in questo caso, documentaristica, di Martin Scorsese. Lui era lì, a Bethel, assieme alla sua storica collaboratrice Thelma Schoonmaker e Michael Wadleigh. Scorsese ha visto e ripreso ciò che qualsiasi amante della musica avrebbe voluto vivere: da Joan Baez ai The Who, dai Creedence Clearwater Revival all’epocale esibizione di Jimi Hendrix.
Quei giorni di serena liberazione (salvo qualche spiacevole incidente), dal 15 al 18 agosto 1969, rappresentarono un momento storico fondamentale di esaltazione musicale. Un concerto evento, simbolo di una musica immortale e di quei pacifici ideali “floreali”, ormai defunti.
«Gimme Shelter» e quei fedeli defunti
Gimme Shelter è senza ombra di dubbio un capolavoro del rock anni Sessanta, un grido di soccorso, lo specchio di un’epoca che risuona tutt’ora dalla storia della musica ad oggi. A far da padrona al pezzo è sicuramente la voce disarmante di Merry Clayton, dotata di un’estensione vocale che si spezza a metà (seguita da un “whoa” di Jagger), per poi proseguire irremovibile sino al finale. Ma veniamo al suo inserimento nella filmografia scorsesiana. La traccia (insieme a tante altre degli Stones) vanta ben tre utilizzi: Quei bravi ragazzi, Casinò e The Departed, con tanto di doppietta all’interno di quest’ultimo. Se, per quanto riguarda i primi due film (a parte un raro arrangiamente in Casinò), l’uso era molto simile a quello di Mean Streets (approfondito nella Parte I), quello percepibile in The Departed è sicuramente il più innovativo ed interessante.
Ecco, quindi, The Departed: l’ultimo film di Martin Scorsese ad includere la musica degli Stones, l’unico ad essersi aggiudicato una statuetta per la miglior regia nel 2007. The Departed è un film esemplare, su tutti gli aspetti, in particolar modo quello che riguarda il montaggio sonoro. Perfettamente condivisibile è la dichiarazione dello stesso Scorsese, secondo il quale, privati del sottofondo sonoro degli Stones, i suoi film non sarebbero potuti esistere… In questo caso neanche senza i Dropkick Murphys, ma passiamo oltre.
La sequenza iniziale di The Departed è semplicemente magistrale. Una composizione audiovisiva indice di una capacità stilistica ormai assodata, sempre tagliente ed ipnotica. Un’introduzione found footage, accompagnata dal crescendo di Keith Richards, si lascia trasportare dalla voce di Frank Costello, interpretato da un ottimo Jack Nicholson. La voce, che apparentemente sembra quella di un narratore esterno, si tramuta in un monologo interiore.
La musica esplode su uno stacco che ci teletrasporta da un oscuro garage ad una finta soggettiva su 334 Driggs Avenue, Brooklyn. Frank entra in un market, seguito dal suono stridulo d’una sgommata che ci riporta con il culo per terra. La musica si attenua, cedendo il posto ad un dialogo tra Frank ed un ragazzino, fondamentale per il resto del film. La voce extra diegetica diventa diegetica, il presente diventa passato, per poi riportarci, sul finire della sequenza, proprio in quel garage dismesso nel quale tutto è iniziato. Frank è intento a formare dei ragazzini con un malsano profetizzare, uno dei quali crescerà come suo figlioccio e suo fidato collaboratore. Gimme Shelter è, in questo film, una sorta di nenia, un canto funebre, un urlo di avvertimento. Una “tempesta minacciosa“, presagio di un destino ineluttabile a forma di “X”.
Insomma, tentare di descrivere una scena così altamente cinematografica è un’operazione assai ardua, quasi impossibile. Resta comunque il fatto che la musica, per Scorsese, è e sarà sempre un tema di importanza assoluta, vitale. Il recente The Irishman, ad esempio, nelle sue imponenti tre ore e mezza, è costellato da interessantissimi inserimenti musicali che varrebbe la pena analizzare. Chissà se questo possa bastare come spunto per una Parte III.
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