Presentato Fuori Concorso all’ormai finito Festival di Venezia c’era anche il titanico Director’s diary, film da cinque ore e mezza del regista Aleksandr Sokurov. Opera fondamentale per decifrare anche tutto il lavoro precedente dell’autore russo, il film riesce a stimolare con continue suggestioni storiche e stilistiche nonostante la durata gargantuesca. Oltre ad una breve riflessione sul film vi presentiamo anche la nostra conversazione col regista stesso, che a fine incontro ci ha ringraziati dicendo: “grazie per impegnarvi nel capire il mio film.”
Director’s diary, opera maestra
Chiunque sia famigliare con il lavoro di Aleksandr Sokurov sa che stiamo parlando di uno dei pesi da novanta del cinema d’autore contemporaneo. Raggiunta la fama internazionale già nel 1997 con Mother and Son, Sokurov era amico personale, e secondo molti erede spirituale, di Andrei Tarkovskij; l’opera del regista si è sempre concentrata sul potere, in tutte le sue spietate e ridicole forme; per citare una sua precedente intervista, Sokurov afferma che non si possa guardare il potere se non con “un sorriso in mezzo alle lacrime”. Oltre alla famigerata Tetralogia del Potere –Moloch (1999), Toro (2001), Il sole (2005), Faust (2011)- Sokurov ha espresso tutto il suo sdegno per il comando nel recentissimo Fairytale (2022).

Proprio come per quel film, Director’s diary opera con immagini d’archivio: se in Fairytale i dittatori più spietati della storia borbottano e si deridono a vicenda montati e rimontati dal regista, Director’s diary più che manipolare le immagini storiche le ricontestualizza; enorme film di montaggio, le cinque ore ripercorrono di anno in anno la storia dell’Unione Sovietica e del resto del mondo dal 1957 fino al 1991, con poche e precise omissioni. Filmati d’epoca e didascalie con lettering spesso invasivo e significante si contendono l’attenzione dello spettatore.
Director’s diary opera su almeno tre livelli: il primo, quello della contro-narrazione di quegli anni tormentati, nei quali le immagini mentivano attraverso la propaganda, ora rettificati dalle annotazioni scritte da Sokurov; un simbolico trionfo della parola scritta sull’immagine, del fatto sulla finzione. Il secondo livello, quello certamente più importante, è contenuto nel titolo: Director’s diary è appunto un diario che prende nota di tutto ciò che ha colpito il suo regista, dal golpe in America Latina al debutto di band pop, passando per l’uscita di capolavori del cinema e importanti precisazioni sulla storia sovietica. Intrigante la smisurata fascinazione di Sokurov per gli incidenti aerei, riportati con frequenza e nei minimi dettagli.
In ultimo, Director’s diary è una ricca dissertazione sulla persistenza di Lenin nella cultura contemporanea russa: la sua figura ritorna ciclicamente, mentre quella di Stalin non viene mai nemmeno menzionata e quelle di tutti gli altri leader dell’Unione finiscono semplicemente dimenticate. Ad un tratto si può anche sentire un tonante Brežnev affermare: “ora è l’epoca di Lenin, è sempre l’epoca di Lenin.” L’immortalità dell’immagine e del potere che ne deriva, forse la via che sarebbe dovuta essere quella corretta al socialismo, tutte possibili letture di questa ingombrante presenza storica.
Si può quindi riassumere Director’s diary in un’immagine: il personaggio narrante, Sokurov stesso, accosta un orologio da polso alla penna con cui sta compilando il suo diario, affermando quindi una diretta correlazione fra il tempo e l’inchiostro, come se l’uno fosse la continuazione dell’altro. A completare la complessità di questo mastodontico film, l’utilizzo della musica e del sound design, che evidenziano l’intensità emotiva con cui il regista ha vissuto gli eventi riportati.
Ma vediamo ora di passare alle parole di Sokurov stesso, senza dilungarci oltre.
Aleksandr Sokurov, regista e attore in Director’s diary

Lei compare nel film, come mai questa scelta?
È la prima volta che prendo parte al film come personaggio perché ho fatto e vissuto le cose che sono nel film. Le persone nel film sono i miei compatrioti, potrei non essere d’accordo con loro su molte cose ma li amo tutti. […] In Director’s diary parlo anche di come il socialismo stava lentamente morendo. Anche se il periodo non era molto fortunato per le persone io sono comunque deluso, non è si è trattato solo di perdere un’ideologia politica: è come se il sogno di uguaglianza fosse stato offerto alle persone, a tutti, ma non avesse funzionato.
So delle filosofie socialiste francesi che parlavano di utopia, vengono in mente Saint-Simon e Fourier, o la Città del Sole di Campanella, queste sono storie di magia, nessuna nazione al mondo ha provato ad attuare questi sogni. All’inizio sembrava che nell’Urss stesse funzionando, poi scoprimmo quanto difficile era farlo funzionare: dobbiamo anche considerare che fuori dai confini sovietici l’Europa era molto aggressiva. Chissà se l’Europa avesse detto: ”qualcuno sta provando a realizzare questa idea. Proviamo ad aiutarli!”. Ma nessuno ha fatto nulla.
Si può dire che Director’s diary sia una continuazione di Arca Russa?
Arca Russa era un modo artistico e fittizio di raccontare. Questo film non è un giornale o un rotocalco ma è una riflessione su quei tempi.
Ci sono evidenti omissioni temporali nel film, in particolare il 1986, l’anno di Chernobyl, può magari dirci qualcosa a riguardo?
Certamente, Director’s diary è una selezione. Ho analizzato ogni anno tenendo in considerazione quanto fosse interessante da un punto di vista drammatico: se non c’erano fatti interessanti semplicemente saltavo l’anno. Non è uno studio, ma un punto di vista personale con una percezione molto privata dei fatti. La versione originale durava 7 ore, ne ho tagliate due.
All’inizio pensavo di fare un film per la distribuzione in home movie perché è difficile immaginare far uscire un film del genere in sala. Poi ci ho riflettuto e ho capito di dover tagliare e sono comunque soddisfatto. Ovviamente film di questo tipo è meglio vederli sul grande schermo: con tutto l’impegno messo nella produzione del suono e nella composizione dell’immagine, bisogna considerare l’impatto della grandezza dello schermo. Lo spettatore sarà più o meno coinvolto a seconda di quanto grande è lo schermo.
Director’s diary è anche un grande omaggio all’arte del montaggio. Quanto si è ispirato dalla scuola di montaggio russa?
Credo non ci siano scuole di montaggio, è un’illusione. Si tratta solo della sensibilità del singolo artista. Se prendi il pittore El Greco, lo considereresti come un greco che lavora in Spagna o come pittore spagnolo? È semplicemente lui. Il montaggio segue delle regole, alle quali però io non aderisco perché per ogni film ho nuovo materiale e lavoro in modo diverso, ogni film ha bisogno di un nuovo livello di libertà. Perché cos’era interessante per Ėjzenštejn e Griffith ora magari non lo è più: perché la ruota originale non cambia, nonostante ora sia completamente diversa. Ogni scuola è semplicemente l’apporto personale del singolo regista alle regole condivise, ogni autore che si possa definire tale rappresenta solo sé stesso.
Perché ha scelto proprio il 1957 come data di inizio di questa sua Odissea temporale?
Stalin è morto nel 1953, i sovietici hanno avuto bisogno di diversi anni per riprendersi, era un periodo molto difficile per la Russia. Nel ’57 le persone sono tornate a respirare, è tornata la libertà. Ci eravamo finalmente ripresi dalla Seconda Guerra Mondiale, che per la Russia è stata drammatica forse solo come lo fu per la Germania: c’è un libro di un giurista militare che studiò cosa successe nei territori occupati dai tedeschi.
C’è un territorio nel nord-est del paese, grande come la Spagna: esplorando questo territorio il giurista non riuscì a trovare un solo sopravvissuto, non un villaggio. Tutti gli abitanti erano stati uccisi. Il villaggio di Pskov era stato sterminato. Tutta la popolazione della regione è stata annichilita dai soldati tedeschi, ungheresi, slovacchi e spagnoli nella regione. Abbiamo sempre parlato della Shoah, un terribile evento, ma nessuno si è mai domandato realmente quanti Russi siano stati uccisi. La percezione della storia in Russia è ancora soggetta alla paura di una nuova guerra, la Russia non si è ancora ripresa dalla Seconda Guerra Mondiale.
Lei parla anche di censura in Director’s diary: che cosa può dire sull’odierna situazione in Russia e che consigli darebbe a giovani registi che vorrebbero esprimersi sotto censura?
Non son se posso rispondere, perché la situazione è molto brutta. La censura non dovrebbe esistere, è proibita dalla costituzione della Federazione Russa, ma evidentemente siamo in una fase della storia che la usa. Questo film è finanziato da privati senza fondi statali e non sarà rilasciato in Russia: la cosa mi angoscia moltissimo, perché vorrei un collegamento con i miei compatrioti, ma molti dei miei film sono tuttora censurati.
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