A quasi ottant’anni dalla sua presentazione alla prima edizione del Festival di Cannes, Il Bandito di Alberto Lattuada continua ad essere uno dei più folgoranti esempi della dinamicità cinematografica che investì l’Italia con la fine della seconda guerra mondiale. In costante dialogo sia con il neonato neorealismo che con l’ormai assodato noir statunitense, il film è sorretto anche dalle strepitose performances di tre pezzi da novanta: Amedeo Nazzari, Anna Magnani e Carlo Campanini. Vediamo di capire perché Il Bandito meriterebbe di essere riscoperto come grande classico del cinema italiano e come la questione neorealista sia ben più complessa di come è sempre stata raccontata.

Il Bandito e Lattuada
Pare necessario iniziare con qualche indicazione preliminare sulla figura di Alberto Lattuada, uno dei grandi autori del cinema italiano che finì inevitabilmente schiacciato dai grandissimi che hanno fatto la storia del medium in senso globale. Lattuada si avvicina ai film in giovanissima età come divulgatore culturale e curatore di numerose retrospettive; parte dei suoi sforzi lo porteranno a collaborare con futuri autori del panorama nazionale come Mario Monicelli e ad imparare il mestiere del regista dal già affermato Mario Soldati – Malombra (1942), La Provinciale (1953), La Donna del Fiume (1954) – arrivando a debuttare alla regia solo nel 1942 con Giacomo l’Idealista, adattamento dell’omonimo romanzo di Emilio De Marchi.
Prestando sempre un occhio d’attenzione per le trasposizioni letterarie, Lattuada costruisce la sua carriera facendo sposare le pulsioni d’impegno sociale che interessavano larga parte della società italiana del periodo con elementi propri del cinema commerciale; non a caso sarà il primo autore italiano ad ottenere una distribuzione statunitense con tanto di doppiaggio in inglese per il suo film Anna (1951), melodramma nella vena del contemporaneo Raffaello Matarazzo. Eppure negli anni precedenti il lavoro di Lattuada si era fatto notare anche in patria, in particolare con tre titoli: Il Bandito (1946), Senza Pietà (1948) e Luci del Varietà (1950, co-diretto con Federico Fellini).
I tre film incarnano alla perfezione la più evidente cifra stilistica di Lattuada: ogni suo film gioca con le tradizionali etichette dei generi cinematografici, ibridando le une con le altre e consentendo contaminazioni stilistiche che hanno consentito a buona parte della letteratura accademica e di settore di rivedere in modo più critico e cosciente la narrazione che era sempre stata fatta del neorealismo come di momento artistico anti-popolare e esclusivamente autoriale.
Se vi è verità nell’affermare che proprio i melodrammi di Matarazzo e Emmer, insieme ai film del cosiddetto neorealismo rosa – Due Soldi di Speranza (1952), Pane, Amore e Fantasia (1953) –, hanno contribuito al fallimento al botteghino della produzione neorealista, è anche vero che i codici di genere hanno sempre fatto parte anche della filmografia più “istituzionale”.

Grazie ai film di Lattuada è diventato più chiaro come già nei primissimi titoli neorealisti vi fossero elementi di genere: Ossessione (1943) altro non è che un moderno melodramma, mentre in Roma Città Aperta (1945) Aldo Fabrizi presta il suo famosissimo volto da comico non solo al tragico racconto della Roma sotto occupazione nazista ma anche a sequenze di vera e propria commedia slapstick, con padelle in testa e facce buffe degne dei migliori Stanlio e Ollio. A rinforzare questa lettura del cinema italiano del periodo arrivano anche le opere dei Giuseppe de Santis, sempre capaci di coniugare serietà dei contenuti e spettacolarità della messa in scena.
Lattuada manterrà questa cifra stilistica attraverso la sua intera carriera: fra i maggiori titoli successivi Il Cappotto (1952), adattamento del racconto di Gogol, e Mafioso (1962), fra i primi film a parlare apertamente del coinvolgimento della mafia nella criminalità a livello nazionale, innestando stilemi da commedia all’italiana – indicativa la presenza da protagonista di Alberto Sordi – e archetipi narrativi del noir e del thriller psicologico.
Esemplare per capire l’autore il già citato Senza pietà, che racchiude inconsapevolmente molto del futuro cinema italiano – musiche di Nino Rota, sceneggiatura di Tullio Pinelli e Federico Fellini, presenza di Giulietta Masina fra gli attori protagonisti e come ambientazione la stessa Livorno bombardata che tornerà nell’adattamento de Le Notti Bianche diretto da Luchino Visconti nel 1957.
Il Bandito e i generi

Veniamo dunque al capolavoro in questione: Il Bandito racconta di Ernesto e Carlo, due soldati sopravvissuti alla prigionia in un campo di concentramento tedesco. Entrambi tornano a casa, nel torinese, con la speranza di poter riprendere le loro vite assieme alle famiglie che furono costretti ad abbandonare; Carlo ritroverà la piccola figlia Rosetta, alla quale aveva scritto incessantemente con l’aiuto dell’amico, mentre Ernesto troverà solo morte e distruzione: la sua casa è stata bombardata, la sua famiglia decimata. Sua sorella è scomparsa e le speranze di ritrovarla sono minime.
In questa Italia diroccata, nella quale gli abitanti si radunano attorno a bidoni in fiamme per le strade solo per poter sopravvivere e nella quale il lavoro è un miraggio irraggiungibile, Ernesto incontra una prostituta per le disastrate strade di Torino e sceglie di seguirla fino al suo appartamento: è la sorella, ridotta a sopravvivere con qualsiasi espediente. La felicità dei due dura poco: la giovane viene accidentalmente uccisa dal suo protettore durante una colluttazione iniziata dallo stesso Ernesto nel tentativo di strapparla a quella vita di subordinazione. Devastato e ora realmente solo, Ernesto sceglie di dedicarsi alla vita del criminale dopo aver incontrato una seducente Anna Magnani che gli promette ricchezze ottenute rapidamente e con facilità.
Le due trame parallele, quella della sofferenza economica di Carlo e quella del malinconico edonismo di Ernesto, riflettono appieno due visioni del cinema solo apparentemente antitetiche: per Lattuada, Carlo è il neorealismo, con la sua fame e le sue disgrazie, il realismo e la dimensione morale della sua condizione, mentre Ernesto rappresenta il noir statunitense, il gangster movie con tutti i suoi simboli ricorrenti: fumose sessualità – significativo l’accenno di incesto a cui Lattuada si appella nelle modalità con cui fa incontrare il personaggio di Nazzari e la sorella –, il feticismo delle armi da fuoco – le pistole tornano con insistenza come oggetti di potere anche sessuale –, la figura della femme fatale – intesa come donna che spinge l’uomo a scontrarsi con l’ordine istituito e che infine tradisce – e soprattutto la stessa messa in scena, fatta di ombre nette, vicoli oscuri e panorami cittadini neo-gotici.

Tutte queste suggestioni si scontrano con la sobrietà della trama di Carlo, che vive invece in mezzo alla natura, circondato dalle montagne; proprio come nei migliori film noir sarà la tormentata moralità del protagonista a spingere Ernesto a pagare per i propri peccati: dopo aver inavvertitamente quasi ucciso la figlia dell’amico, sceglie di riportarla a casa accettando di immolarsi sotto i proiettili della polizia pur di riconsegnare la bambina sana e salva.
Significativo come tutti i tentativi di Ernesto per dimenticarsi della situazione post-bellica italiana attraverso la “spensieratezza americana”, fatta di alcool, donne e musica leggera, finiscano per ricondurlo alla realtà: inseguito da un gruppo di uomini armati in divisa, Ernesto fugge per le montagne con uno scopo nobile ed un’arma da fuoco.
A Lattuada non importa molto che le divise siano della polizia o delle SS, il punto è che Ernesto non può essere un gangster perché l’Italia può ospitare solo partigiani. E quindi l’idea di cinema italiana degli anni ’40 finisce per sovrastare quella coeva e americana: di colpo tutto il whiskey, il gioco d’azzardo e la spensieratezza scompaiono davanti l’incombenza delle montagne e dalla guerra appena finita.
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