Non c’è occasione più appropriata dell’anniversario di nascita di Billy Wilder per tornare a parlare di A qualcuno piace caldo, opera-summa ed epitome di un certo modo di far commedia. Walter Veltroni ha scritto che “chi non ama questo film può considerarsi ai margini del vivere civile” [1], certo escluso da un consesso sociale che raramente vede pubblico e critica sperticarsi in lodi per il medesimo ‘prodotto’.
Sta di fatto che A qualcuno piace caldo è un piccolo miracolo della settima arte, una miscela esplosiva e armonica di elementi messi in fila per dar vita a una pellicola intimamente wilderiana, capace di coniugare Hollywood ed Europa, modi classici della comicità e ibridismi di genere.
Il polisenso wilderiano
Il crinale tra simulazione e dissimulazione – marca costitutiva del cinema di Wilder – tocca qui punte di estrema godibilità; la farsa, il travestimento, la fuga appaiono tramate di un’ironia sottotraccia, necessaria a contenere il dis-velamento delle tematiche squadernate. Il cinismo dei costumi, l’omosessualità latente e, di contro, una certa misoginia, emergono in filigrana come materia ribollente, abbracciata e fissata da uno “sguardo polisemico“[2].
C’è senza dubbio nell’opera “tutto quello che si può chiedere alla fantasia di chi si prende la briga di far divertire il prossimo”[3], tuttavia A qualcuno piace caldo non soffre di contenutismo come potrebbe sembrare. Al di là della superficie, gli eventi si caricano di allusioni facendo dell’equivoco una traduzione dei chiaroscuri umani, espediente narrativo finalizzato all’analisi.
A qualcuno piace caldo trama
Billy Wilder è un regista che osserva, indagatore a tratti impietoso della società e dei suoi limiti – intesi come mancanze e intollerabili vizi. L’evento all’origine del plot (la strage di San Valentino) diviene qui propellente di un discorso a più piani, tutto giocato sul rovesciamento e l’ironia, nutrito dei meccanismi consolidati della commedia americana.
I musicisti Joe (Tony Curtis) e Jerry (Jack Lemmon) si mascherano temendo un riconoscimento fatale; testimoni inconsapevoli del crimine, scelgono di unirsi ad una band femminile di cui fa parte Zucchero Kandinsky (Marilyn Monroe), cantante e suonatrice di ukulele con il vizio dell’alcol. Per conquistarla Joe dismette i panni di Josephine e diventa Junior, miliardario figlio di un magnate del petrolio (“il signor Shell!”), in realtà il vero riccone Osgood Fielding II (Joe E. Brown), innamorato di Daphne alias Lemmon.
Oltre il contenuto
Lo spettatore è trascinato in questa carambola d’avvenimenti di cui interessa più seguire i percorsi che scorgere la fine. Il tocco di Wilder è sapiente, riconoscibilissimo, sfrutta il principio di ‘realtà’ (il crimine mafioso) per innescare un motivo ‘verosimile’ (la fuga); “il resto sono fantasia, gag, ritmo, equivoci a lieto fine” [4]. I protagonisti, spinti a un viaggio obbligato e pericoloso, finiscono per trovare in itinere quello che forse non speravano mai.
È qui che si annida l’occhio psico-sociologico di Wilder, capace di unire i frusti stilemi della commedia hollywoodiana a un’indagine dai caratteri eminentemente sovrastorici. La sensualità della Monroe, sbarazzina e deliquescente, nasconde un destino di delusioni sentimentali, di sfruttamento amarissimo e oltremodo cinico.
A qualcuno piace caldo ci parla ancora
Forse nessuna pellicola, col senno del poi, ha saputo catturare così bene l’anima di Marilyn Monroe, già al tempo fortemente instabile come rivela la sua difficoltà a imparare le battute. C’è poi in A qualcuno piace caldo il tema dell’omossesualità strisciante – Jerry scopre di essersi divertito nei panni di Daphne – resa più ‘ardita’ dall’esplicito innamoramento del ricco Osgood il quale, davanti al dis-velamento finale, dichiara con letizia che “nessuno è perfetto“.
Billy Wilder osa nel 1959, sdogana il travestitismo e rimuove la patina di umiliazione dall’impotenza maschile, mostrando il macho Curtis nei panni del ‘sedotto’.
A qualcuno piace caldo, a ben vedere, è percorso da un ribaltamento di ruoli che è poi – a livello più ampio – uno scardinamento dei più vieti stereotipi sessisti. Sotto la confezione dorata, di commedia memorabile, si nasconde un film in cui Wilder condanna il moralismo, diverte e scandalizza con consueta vivacità. Assecondare il pubblico, presentandogli il noto, è a volte il modo migliore per scardinarne i criteri. Da dentro, silenziosamente, con tonalità dissacrante.
Note
[1] W. Veltroni, Certi piccoli amori. Dizionario sentimentale di film, Milano, Sperling & Kupfer, 1994, p. 2.
[2] T. De Pace, A qualcuno piace caldo, di Billy Wilder, in “Sentieri Selvaggi”, 13 aprile 2014.
[3] W. Veltroni, Certi piccoli amori, cit., p. 2.
[4] M. Zanetti (a cura di), Cinema dream on the road in 101 film. Viaggiare per andare in nessun posto, Milano, Demetra-Giunti, 1999, p. 9.
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