Quando si parla di America, la prima cosa che viene in mente nell’immaginario cinematografico e non è il selvaggio west, una terra promessa che portava speranza di libertà e di fondazione di un nuovo mondo da parte di gruppi di persone come pionieri, cercatori d’oro, movimenti religiosi e i nativi americani. L’epopea del west è stata mitizzata in film leggendari, fra i tanti quelli di Sergio Leone che hanno visto protagonisti attori come Clint Eastwood o John Wayne.
Il mito della frontiera, però, se si pensa al massacro di Sand Creek – noto soprattutto da noi in Italia grazie a una celebre canzone di De André – o alla guerra dello Utah, ha portato con sé violenza e false promesse di pace. In questo senso è da interpretare American Primeval, serie scritta da Mark L. Smith e diretta da Peter Berger e disponibile su Netflix dallo scorso gennaio.
La trama di American Primeval
American Primeval si apre in una stazione in mezzo al nulla, da qualche parte nel Missouri. Sarah (Betty Gilpin), una madre in fuga dopo un omicidio che la vede coinvolta, cerca di portare in salvo il figlio Devin (Preston Mota) a Crook Springs, città immaginaria nello Utah dove si trova il padre del bambino e il marito della protagonista. I due vanno a Fort Bridger, un forte al confine fra Wyoming e Utah fondato e gestito da Jim Bridger (Shea Wigham) – personaggio realmente esistito– in cerca di qualcuno che li aiuti a proseguire il viaggio verso ovest.
Quello a cui, però, andranno incontro Sarah e Devin è una guerra – la guerra dello Utah, più precisamente – in cui sono coinvolti non solo l’esercito americano, guidati dal capitano Edmund Dellinger (Lucas Neff), ma anche i mormoni, guidati dal carismatico e controverso Brigham Young (Kim Coates), secondo presidente della Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni e primo governatore dello Utah, e le tribù di nativi americani dei Paiute e degli Scioscioni. Tutti lottano per la terra promessa, professando pace e libertà, ma allo stesso tempo negandole con la violenza.
American Primeval, il contesto storico della Guerra dello Utah e del massacro di Mountain Meadows
American Primeval è ispirata a fatti e situazioni realmente accaduti. Quello che la videocamera di Berger riprende sono fatti risalenti alla Guerra dello Utah, definita anche guerra o ribellione mormone o la gaffe di Buchanan, a causa delle azioni compiute dall’allora presidente degli Stati Uniti James Buchanan che, dopo aver inviato soldati americani a perseguitare i mormoni e a cacciarli senza spargimento di sangue dall’area di Salt Lake Valley, avviò un conflitto durato dal 1857 al 1858 dove ebbero la meglio i mormoni.
Un altro avvenimento che Berger porta in scena è il massacro di Mountain Meadows, dove un gruppo di migranti mormoni fu ucciso in circostanze mai del tutto chiarite, per il quale vennero incolpati i nativi americani. In realtà, il tutto fu realizzato dalla milizia mormone della Legione Nauvoo, molto probabilmente per legittimare le violenze dei mormoni perseguitati fin dal loro insediamento nel Missouri, divenuto più difficile alla morte del loro fondatore Joseph Smith.
Qui, allora, conviene parlare di quei personaggi realmente esistiti che appaiono in American Primeval. Ad apparire vi sono: Jim Bridger, conosciuto per la sua associazione con Hugh Glass – esploratore e cacciatore di pelli che ritroviamo in The Revenant di Alejandro González Iñárritu, con cui la American Primeval ha degli aspetti in comune –, Brigham Young, la cui gestione dello Utah è stata controversa soprattutto per le sue leggi di discriminazione razziale, e Wild Bill Hickman (Alex Breaux), braccio destro di Young responsabile dell’apparato legislativo dello Utah, ma anche di alcuni massacri per conto di quest’ultimo.
American Primeval, le possibili influenze
Se prima è stato citato The Revenant è perché con American Primeval ha in comune lo scrittore, Mark Lee Smith, ma anche il taglio registico. Come nel film di Iñárritu, anche in American Primeval abbiamo un realismo crudo e spietato, che non risparmia dalla visione il sangue e le ferite, così come il paesaggio alle volte innevato, alle volte arido, ripreso dalla cinepresa in tutta la sua desolazione.
Il titolo American Primeval significa letteralmente “primevo americano” e allude a un’America ritratta in tutta la sua barbarie e mancanza di civiltà, dove la distinzione fra nero e bianco è sfumata, e soprattutto, come scrisse Cormac McCarthy in La strada, “dio non esiste e noi siamo i suoi profeti”. Non è un caso che si tiri in ballo McCarthy, perché l’America ritratta da Berger è quella di Meridiano di sangue con qualche tinta post-apocalittica di La strada: un paese che si nasconde dietro alle promesse di pace e libertà per perpetrare il male e spargere violenza mandando avanti gli interessi di pochi.
La frontiera in versione post-apocalittica
Sono tanti gli elementi post-apocalittici che Berger porta in American Primeval. Il più lampante è il nucleo dei protagonisti: Sarah, Devin, la loro guida e vecchio membro degli Scioscioni Isaac Reed (Taylor Kitsch) e la nativa muta Due Lune (Shawnee Pourier) sono coloro che, viaggiando verso ovest, dovranno portare il fuoco, ovvero sono gli unici in cui è riposta la speranza di una vera pace e della fondazione di una civiltà lontana dalle barbarie che esperiscono in prima persona.
Questo perché costituiscono un vero nucleo familiare con madre, padre e due figli. Non è un caso, inoltre, che Due Lune sia muta, in quanto, metaforicamente parlando, sta a significare come in presenza della barbarie l’umanità abbia disimparato a parlare e che, solo con la ricerca di un nuovo mondo, riuscirà a imparare un nuovo linguaggio fatto di amore e tolleranza.
Come in tutti i racconti post-apocalittici che si rispettano, sono presenti, ad esempio, conflitti fra gruppi diversi fra loro – esercito americano, mormoni e nativi americani –, predoni e cacciatori di taglie, ma anche figure carismatiche e controverse che fanno da santoni come Brigham Young, la cui spietatezza e assenza di scrupoli ricorda il giudice Holden di Meridiano di sangue e che come quest’ultimo, legittima il male e la violenza per impossessarsi illegalmente dei territori dello Utah.
Un altro elemento significativo è la riflessione su dio, inteso non tanto come religione, ma come sistema di valori che rende gli esseri umani tali. Se per Young dio diventa una scusa per uccidere e mandare avanti i suoi interessi e quelli della comunità, e per Penna Rossa (Derek Hinkey) della Tribù del Lupo – clan degli Scioscioni che, a differenza di questi, non rifiuta la guerra e la violenza – un modo per vendicarsi con il sangue dei nativi morti per mano dei coloni, per la mormone Abish (Saura Lightfoot-Leon) invece dio gioca con gli uomini per vedere chi uccide di più.
La riflessione più interessante a questo proposito la fa Isaac, che deve lottare con i suoi demoni interiori, ma anche con un mondo che non ha più regole e che mostra come l’America di Berger sia un luogo dove anche chi fa del bene mostra gli abissi del proprio cuore in quanto privo di punti di riferimento: “Non c’è cosa sicura a questo mondo”, afferma, “né un Dio o un creatore a cui chiedere aiuto quando ne hai bisogno”.
American Primeval e le promesse di un nuovo mondo
Questa America primeva è, come scrive nelle sue memorie il capitano Dellinger, un luogo dove le paure spingono gli uomini in questi angoli neri e bui dell’inferno, dove si trovano forze più grandi di quelle che conosciamo a controllare questa terra. Non è un caso che faccia questa riflessione dopo aver osservato un grizzly presso il fiume Cane, in quanto la lotta per la terra promessa ha reso i diretti interessati al pari delle bestie, guidati dalla paura dell’altro e in preda alla violenza per difendersi e per conquistare il proprio Eden.
Cos’è, allora, la terra promessa da Zion per i mormoni o la terra degli avi per gli Scioscioni? Non è altro che un modo per legittimare la reazione di violenza alla paura. Non è mai esistita una terra di pace e libertà, in quanto gruppi diversi hanno interessi diversi e tendono, dunque, a prevaricarsi a vicenda per prevalere sugli altri. La terra promessa è, in realtà, un luogo di brutalità dove pare non esserci l’amore, e a proprie spese lo imparerà Jacob Pratt (Dane DeHaan), mormone timorato di dio che capirà come quello stesso dio lo abbia allontanato da sua moglie Abish e dalla possibilità di un vero e proprio inizio.
Non è un caso, però, che Sarah alle volte svii il discorso da Crook Springs alla California. Questo elemento è significativo in questa ricerca della terra promessa, in quanto, nel momento in cui quest’ultima si rivela un’illusione, bisogna trovare un nuovo mondo e una nuova illusione. Se Sarah e suo figlio ci riusciranno lo si capirà guardando la American Primeval, ma una cosa è certa: saranno loro che porteranno il fuoco, ovvero un amore che dura anche nella barbarie.
American Primeval, un nuovo modo per raccontare la frontiera
American Primeval, dunque, riesce a riscrivere il mito della frontiera e della fondazione americana operando di sincretismo, fondendo un passato già avvenuto e mitizzato con un futuro immaginato e distopico. Attingendo agli stilemi della narrazione post-apocalittica, Peter Berger e Mark L. Smith riescono a raccontarci le falsità che si celano dietro all’illusione della terra promessa, che porta con sé paura e odio per l’ignoto che si vuole sottomettere a tutti i costi con la violenza propinando la menzogna della difesa della pace. In tempi di barbarie, ciò che diventa sempre più importante è continuare a difendere la libertà e la tolleranza, uniche vere terre promesse.
Tuttavia, in un mondo buio e a tinte fosche qui ritratto, è ancora possibile portare in salvo il fuoco dell’amore e della compassione, portare la luce che i falsi profeti si professano di diffondere e creare un mondo dove è possibile salvarsi dalla barbarie e fondare una società dove la libertà può diventare qualcosa di concreto e non un argomento di discorsi demagogici e violenti.
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