Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile… quello con la pistola è un uomo morto.
Parole che sono entrate dalla porta principale della storia del cinema. Un pistolero solitario in un paese sperduto e polveroso, un poncho verde, tanto oro e un motivetto che fischietta nelle orecchie dello spettatore: oggi l’accoppiata Clint Eastwood-Sergio Leone nell’immaginario collettivo È il western, immediatamente riconoscibile e riconosciuto, insieme forse solo a John Wayne. Come molte grandi storie, però, tutto è iniziato da poco più che una scommessa: sono passati sessant’anni dall’esordio nelle sale di Per un pugno di dollari, il 12 settembre 1964, e neanche lo stesso Leone avrebbe potuto immaginare di aver appena ridefinito il genere.
La strana gestazione di Per un pugno di dollari
Nel 1963, un giovane Sergio Leone veniva dal suo esordio alla regia, Il Colosso di Rodi (1961), dopo una lunga esperienza come aiuto regista e sceneggiatore, soprattutto nel fortunato filone peplum (genere epico-biblico, il cui rappresentante più famoso è certamente Ben Hur). La visione al cinema di La sfida del samurai (Yojimbo), di Akira Kurosawa, però, lo folgorò al punto da spingerlo a volerne girare il remake in chiave western, un genere che ormai negli USA sembrava volgere al tramonto dopo vent’anni.
La questione sarebbe diventata però spinosa dopo l’uscita del film: le somiglianze tra le due pellicole erano evidenti e sotto gli occhi di tutti, ma Kurosawa non ricevette mai i diecimila dollari per i diritti d’autore. Non fu mai chiaro di chi fosse la responsabilità di questa negligenza, ma Leone ricevette addirittura una lettera dallo stesso regista giapponese, che recitava: «Signor Leone – ho appena avuto la possibilità di vedere il suo film. È davvero un ottimo film, ma è il mio film e deve pagarmi». La diatriba finì in tribunale, dove Kurosawa ottenne di ricevere il 15% degli incassi mondiali di Per un pugno di dollari.
La produzione si sviluppò lontano da riflettori, per un film che all’epoca veniva considerato di serie B sia da alcuni addetti ai lavori, che dai vertici stessi.
Il budget di Per un pugno di dollari era quindi piuttosto limitato: per la parte principale, dopo rifiuti illustri come quelli di Henry Fonda e Charles Bronson, si virò su un giovane proveniente dalla serie TV Gli uomini della prateria, un tale Clint Eastwood.
Per l’antagonista Ramòn, invece, fu scelto Gian Maria Volonté, che stava iniziando a farsi un nome con A cavallo della tigre, Un uomo da bruciare e Il terrorista. Il resto del cast fu completato da un mix di attori europei (tra cui un Mario Brega pre-commedia all’italiana), e le riprese si svolsero tra Cinecittà e la Spagna: prendeva forma così il capostipite dello spaghetti western, sottogenere che avrebbe rivitalizzato il filone del West per più di un decennio.
La favola del West velata di polvere: Per un pugno di dollari oltre la frontiera
Per un pugno di dollari segue fedelmente l’impostazione di Yojimbo, con la grande differenza (oltre all’ambientazione) del suo protagonista. Se il Mifune di Kurosawa è un ronin, un samurai senza padrone che lotta per liberare una città dal giogo di due clan mafiosi rivali – chiara critica alla Yakuza – lo Straniero (o Joe che dir si voglia) di Leone si allontana dallo stereotipo del pistolero valoroso che si batte per la giustizia. Cinico e furbo, per buona parte del film spara solamente per il proprio tornaconto, cambiando rapidamente bandiera tra i Rojo e i Baxter e trovando redenzione solo nel finale.
Con Per un pugno di dollari Sergio Leone lascia da parte il mito idealizzato della frontiera e del West dell’epoca d’oro, per riportare gli Stati Uniti alle loro vere, violente fondamenta: terre di confine aspre, sanguinarie, dove non c’è spazio per gesti eroici, ma solo per la ricerca del profitto e chi è disposto a tutto per raggiungerlo. Lo stesso Joe, nel finale, sfrutta un sotterfugio, ingannando Ramòn con un rudimentale giubbotto antiproiettile (anche se poi si “riscatta” eliminando da solo i quattro Rojo rimasti).
Questa disillusione verso il West è rispecchiata anche nel personaggio del becchino Piripero (Joseph Eggers), per cui, dopo la morte di Ramòn e dei Rojo, non è altro che l’ennesima giornata in ufficio, di nuove misure per nuove bare in un paese dove sembra non esserci nessuno, oltre a lui e il barista Silvanito (José Calvo), per godersi questa nuova libertà.
Ciò non vuol dire che sia tutto privo di significato, però: perfino un pragmatico come Joe riesce a riscoprire una morale che non sospettava di avere più in sé, liberando Marisol (Marianne Koch) dai suoi aguzzini, ricongiungendola a suo marito e suo figlio e tornando in paese per salvare Silvanito, prigioniero di Ramòn.
Il buono e il cattivo
Clint Eastwood trova la fama portando in scena uno dei più famosi antieroi del cinema, che lo consacrerà nell’Olimpo del cinema in pochi anni con i successivi Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo.
Pur con una carriera lunghissima, sia davanti che dietro la macchina da presa – e ancora attiva alla verde età di 94 anni – con titoli come L’ispettore Callaghan, Fuga da Alcatraz, Million Dollar Baby e Gran Torino (solo per citarne alcuni) la sua immagine è inscindibilmente legata a due espressioni: con cappello e senza – parole di Leone stesso. Con i suoi occhi di ghiaccio e quel sorrisetto sornione, Eastwood unisce la sua presenza scenica ai suoi sguardi diventati marchio di fabbrica, più una buona dose di sottile ironia, tutte caratteristiche che lo hanno reso l’interprete perfetto.
In Per un pugno di dollari Gian Maria Volonté porta in scena il crudele Ramòn Rojo. L’attore italiano, che nei piani originali era la seconda scelta, piacque a tal punto a Sergio Leone da venire richiamato l’anno successivo nel sequel Per qualche dollaro in più, di nuovo memorabile nel ruolo del villain, stavolta il rapinatore Indio.
Nel capo della famiglia Rojo, dal canto suo, non c’è spazio per zone grigie: è spietato e subdolo, ma anche carismatico e pianificatore. All’esordio internazionale, Volonté fa valere tutta la sua formazione teatrale, contrapponendo ad un protagonista imperturbabile un rivale espressivo e lucidamente folle, che s’impone senza curarsi dei suoi fratelli o sottoposti e fa strage di un intero plotone di soldati, fino all’ultimo.
Un fischio entrato nel mito
In ogni capolavoro che si rispetti non può mancare una colonna sonora indimenticabile, e se si parla di ciò, un gigante come Ennio Morricone entra in ogni conversazione.
Alla sua prima collaborazione con Leone, il maestro Morricone firma una soundtrack che cementa il successo di Per un pugno di dollari, con il motivetto di fischio in apertura diventato subito iconico, alternando poi momenti beffardi come il suo protagonista ad altri di puro pathos. Il compositore siciliano sarebbe in seguito tornato in tutti i (purtroppo pochi) lungometraggi del regista romano, regalandoci solo lavori magnifici, con brani che sono entrati nella cultura pop come The Ecstasy of Gold de Il buono, il brutto e il cattivo.
Per un pugno di dollari – e, per estensione, tutta la Trilogia del Dollaro – diede il via ad un filone amatissimo come quello degli spaghetti western, lanciando la carriera di Clint Eastwood, divenendo in breve tempo una pietra miliare e un termine di paragone per una moltitudine di cineasti, dalla direzione delle scene d’azione agli stretti primissimi piani che poi sarebbero diventati simbolo del terzo film.
Basti pensare a quanto la carriera di Quentin Tarantino, per sua stessa ammissione, debba ai lavori di Sergio Leone, o alle innumerevoli citazioni, richiami e parodie che si sono succeduti negli anni.
Ne scegliamo una in particolare, per chiudere:
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