Al Festival di Cannes è stato rilasciato il trailer del nuovo docu-film diretto da Rohit Gupta che, dopo il grande successo di The Creative Indians su Netflix, torna dietro la cinepresa per raccontare altre storie. In Headhunting to Beatboxing la storia è quella della tribù Naga del Nagaland (India orientale), alla cui narrazione dinamica e multimodale ha preso parte anche il celebre compositore A.R. Rahman.
Il nome di A.R. Rahman è conosciuto e apprezzato ovunque, associato a colonne sonore di incredibile bellezza che spaziano tra i generi cinematografici più disparati, anche oltre Bollywood. Tra le più amate nel mondo spiccano Lagaan – C’era una volta in India, candidato all’Oscar al miglior film straniero nel 2002, e The Millionaire, che valse a A.R. Rahman due vittorie agli Academy Awards nel 2009.
Il musicista e compositore indiano A.R. Rahman, immortalato dalla fotografa Stephanie Cornfield a Cannes 2024
Si sa, la musica permette una libertà di espressione che non può rimanere confinata ai lungometraggi convenzionali, e in virtù di ciò A.R. Rahman, da bravo musicista, non può che contribuire a creare arte di vario tipo. Dopo Gupta, anche lui si è raccontato in un’intervista a NPC.
A.R. Rahman, una lunga carriera tra suoni e parole
Negli anni A.R. Rahman ha stregato intere generazioni, mettendo il suo talento al servizio di produzioni diverse come il cielo e la terra (tra kolossal, film drammatici, biopic, persino rom-com) e traducendo in musica i più comuni e disparati tratti di umanità. La sua produzione è come un’enciclopedia di suoni, su cui non potevamo evitare di indagare.
Nel corso della tua carriera hai collezionato numerosi premi prestigiosi, tra cui spiccano cinque nomination agli Oscar e due vittorie nel 2009 per The Millionaire. Come ti sei sentito in quell’occasione, e in che modo la vittoria ha ispirato il tuo lavoro in seguito?
Essere nominati e vincere è una meravigliosa conferma del proprio lavoro, perciò sono estremamente grato. Un riconoscimento del genere è sempre gratificante, ma a dire il vero a questo punto della mia carriera non vedo l’ora di mettermi di nuovo alla prova; sono sempre alla ricerca di nuovi suoni e nuovi modi di creare musica, perché credo che la musica possa unire il mondo. Questo è il mio viaggio costante.
Ho visto molti film di cui hai composto la colonna sonora, e alcune volte stentavo a credere che fossi davvero tu l’autore di pezzi tanto diversi. Penso ai brani di Dil Se, Lagaan, 127 ore e Jodhaa Akbar, per esempio. Mi chiedo quale sia il tuo approccio a generi cinematografici tanto distanti, e se ce ne sia uno in particolare per il quale ti senti più a tuo agio nella composizione.
Mi piacciono le sfide; ognuno dei titoli che hai citato è molto diverso dall’altro e questo per me è meraviglioso. Fare musica per i film vuol dire mettere insieme la visione del regista e il linguaggio musicale che lo aiuta a realizzarla; per esempio, in Amar Singh Chamkila abbiamo fatto in modo che Bajaa fosse una narrazione a sé stante per descrivere Chamkila, e allo stesso modo in Lagaan la canzone della pioggia doveva trasmettere un senso di attesa. Mi piace essere sfidato a creare qualcosa di nuovo per il pubblico e per il regista; mi sento più a mio agio quando non sono a mio agio, o non sono legato a un genere preciso.
Alcune delle mie colonne sonore preferite sono Nuovo Cinema Paradiso, Nato il quattro luglio, Brigadoon, Everything Everywhere All at Once. La mia lista è infinita, non potrei mai sceglierne una.
A.R. Rahman durante l’intervista con NPC
Durante un’intervista, hai parlato più volte del tuo rapporto con Shekhar Kapoor e dell’importanza della narrazione per un musicista e per altri professionisti dell’industria cinematografica. Nel corso degli anni tu stesso sei stato un narratore in più modi, sia come compositore che come paroliere. Quale dei due aspetti della creazione musicale trovi più impegnativo, e come organizzi il tuo lavoro quando deve includere entrambi?
Sono ugualmente impegnativi ed emozionanti. La musica deve venire dal cuore, con esso toccare anche la mente e l’anima, e col tempo dovrebbe permeare i sensi di ognuno. Per me è un’esperienza olistica; la musica è anche una forma di narrazione, nei film eleva l’esperienza e in un album deve aiutare l’ascoltatore a far risuonare le sue sensazioni. Sono fortunato ad avere un buon team che mi indica la retta via, perché la mia mente tende a lavorare in più direzioni allo stesso tempo per trovare la melodia o la composizione perfetta.
Nella tua discografia si nota la combinazione di suoni tipici della tradizione indiana, come il Sitar, con suoni più contemporanei come la chitarra e la tastiera. Come riesci a combinare in modo così fluido suoni tanto diversi?
Deve sembrare giusto nel cuore, nella mente e all’orecchio. Vorrei poter dare una risposta complicata, ma è così semplice! Mi piace provare nuovi strumenti, sia per impararli e basta che per usarli quando faccio musica; quando si combinano vari suoni a volte insieme creano magia, ed è proprio la ricerca costante che porta a questo risultato.
Headhunting to Beatboxing, il racconto di una storia in musica
In The Creative Indians, da bravo storyteller, A.R. Rahman aveva raccontato la sua di storia, facendo avvicinare gli spettatori alla realtà che vive ogni giorno; con la sua partecipazione a Headhunting to Beatboxing il compositore promette di fatto di un’avventura multisensoriale, alla scoperta di suoni nuovi e alla riscoperta di vecchie armonie.
Headhunting to Beatboxing racconta una realtà remota, sconosciuta a molti ma con un bagaglio culturale significativo. Sebbene tu abbia già partecipato a un documentario (sto pensando a The Creative Indians), immagino che questa volta l’esperienza per te sia stata diversa. In che modo?
Avevo visitato il Nagaland per il festival musicale Hornbill, e quando sono stato invitato per la prima volta ne avevo solo sentito parlare, come molti altri. Quando ho visitato il paese sono rimasto affascinato dal luogo, dalla gente e dalla storia della musica: la rinascita musicale dello stato è qualcosa che volevo poter mettere in evidenza, ed è così che è nato il documentario. Si tratta di un’opera che ho prodotto in prima persona, e sono molto orgoglioso di ciò che Rohit Gupta, il nostro regista, ha realizzato: catturare la trasformazione e la musica del Nagaland.
Dal trailer di Headhunting to Beatboxing emerge un’espressione: “Rinascita musicale”, e in effetti la transizione da suoni semplici ad armonie più complesse è piuttosto evidente all’orecchio. Che tipo di rinascita speri di incoraggiare con questo documentario? E che genere di reazione vorresti suscitare nel pubblico?
Sinceramente, mi auguro che un pubblico molto più vasto possa vedere il documentario e spero che, da parte nostra, siamo riusciti a valorizzare la bellezza che si trova nello stato del Nagaland, sia nella ricca storia del suo popolo che nella musica. Stiamo anche fornendo un’educazione musicale ai bambini di un orfanotrofio in quella regione; io e il mio team crediamo che le conoscenze e le abilità debbano essere condivise, perché solo così sarà possibile un vero cambiamento. Questo è solo un piccolo sforzo verso un risultato positivo molto più grande.
Come accennato in precedenza, la realtà presentata in Headhunting to Beatboxing è una di quelle sconosciute, o solo poco conosciute, che spesso sfuggono ai riflettori. Durante e dopo le riprese, hai sentito il peso della responsabilità sulle tue spalle?
Non bisogna mai sottrarsi alle responsabilità. Durante la realizzazione di questo progetto l’intera squadra, compreso Rohit, ne ha discusso. Ci sono voluti cinque anni di lavorazione e diverse fasi di montaggio per arrivare alla forma finale del film, quella che ci sembrava più giusta; una versione che, secondo noi, era la migliore che potessimo offrire al pubblico. Mi hanno sempre insegnato che qualsiasi cosa si faccia bisogna impegnarsi al cento per cento, e continuare a farlo finché non ci si sente soddisfatti del risultato.
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