Come ogni anno il Festival di Cannes ha saputo dare lustro a produzioni di vario genere, confermandosi uno degli eventi cinefili da tenere d’occhio quando si cercano titoli validi per riempire la videoteca, e non solo. La 77ª edizione, come ci si aspettava, ha presentato in anteprima delle uscite promettenti tra cui un docu-film, Headhunting to Beatboxing, di cui alcuni fortunati hanno potuto pregustare il trailer.
Si tratta di un documentario musicale dedicato alla tribù Naga del Nagaland, stato dell’India nord-orientale, e diretto da Rohit Gupta. Un regista decisamente a suo agio con il genere, la cui docu-serie di debutto, The Creative Indians, ha riscosso talmente tanto successo su Netflix da essere rinnovata per ben quattro stagioni, di cui l’ultima girata interamente con lo smartphone.
Noi di NPC abbiamo intervistato Rohit Gupta subito dopo il suo viaggio a Cannes, per parlare non solo di Headhunting to Beatboxing, ma anche del complesso processo creativo dietro la realizzazione di un ottimo docu-film.
The Creative Indians di Rohit Gupta, la serie sul cuore pulsante di una nazione
Per molti il documentario è soltanto un film mancato, una versione delle pagine Wikipedia più interattiva [del confine tra documentario e fiction abbiamo parlato recenemente su queste pagine, in merito I Dannati di Roberto Minervini, ndr]; eppure il documentario può creare dipendenza, e instillare nello spettatore una sete di conoscenza non indifferente. Allora perché molti tendono a scomparire?
A differenza di un film convenzionale, al regista di un documentario non è concesso il lusso di romanzare rimuovendo le sfumature più noiose di una vicenda, ma al contempo è lui a dover rendere il prodotto intrigante, proprio come se si trattasse di un lungometraggio. Rohit Gupta ha saputo portare a termine la missione: The Creative Indians è infatti uno di quei documentari che il pubblico avrebbe continuato ad amare, se solo fosse rimasto un po’ di più nel catalogo Netflix [ad oggi The Creative Indians non figura più sul catalogo italiano, resta attivo il sito del progetto, ndr].
Il fulcro di The Creative Indians è il concetto di creatività. Per prima cosa, vorremmo sapere di più del processo creativo dietro al documentario, e di come questo processo vi ha condotto alla decisione di usare solo smartphone per le riprese.
Incontrando così tanti artisti straordinari e documentando le loro vite ho acquisito un’incredibile saggezza, e mentre passavamo ore a cercare di tessere e confezionare la storia nel nostro studio assorbivamo immancabilmente ogni goccia di ispirazione, lezione di vita, messaggio che ognuno di loro aveva da offrire. Il fotografo protagonista di uno degli episodi, nonché mio mentore agli esordi della mia attività di fotografo, Bandeep Singh, ha detto: “Non si tratta affatto della macchina fotografica, ma di vedere”. Questa frase mi è rimasta impressa.
Durante mio viaggio da autodidatta come storyteller, mi sono reso conto che la creatività non è appannaggio di pochi, ma la pratichiamo tutti i giorni in diverse situazioni di vita; la creatività è la capacità di trovare soluzioni.
Nel 2018 è terminata la terza stagione di The Creative Indians, trasmessa in streaming su Netflix. Per la successiva, le riprese con lo smartphone sono state una semplice soluzione a un grosso problema che stavo cercando di risolvere: non volevo dipendere da budget pesanti, telecamere e attrezzature per poter raccontare la storia che avevo in mente. Volevo dare potere a me stesso e trovare la mia libertà. Nel fare questo ho scoperto l’incredibile potenziale di uno smartphone, soprattutto per i documentari, perché il processo di avvicinamento al soggetto diventa meno ingombrante, meno intimidatorio, più intimo, organico e profondo. Inoltre, lo smartphone ha facilitato enormemente le riprese, poiché i tecnicismi e le limitazioni di una telecamera ingombrante non c’erano più.
Ogni artista porta con sé la propria unicità. Più un mestiere è sconosciuto più è eccitante, perché si può sempre imparare qualcosa di nuovo.
Rohit Gupta durante l’intervista con NPC
Riferendosi a The Creative Indians, Boman Irani ha detto: “il punto non è raccogliere informazioni, ma immergersi”. In effetti, quando si approfondisce una realtà specifica, il pubblico si appassiona e si incuriosisce nonostante si tratti di qualcosa di sconosciuto. Hai provato queste sensazioni durante le riprese? E come spettatore, ti è mai capitato?
Sì, per molti film. Penso che qualsiasi storia capace di coinvolgerti, o che abbia una rilevanza per te in termini di emozione o di esperienza, abbia la capacità di trasportarti nel tempo; ed è questa la magia, sia che si tratti di un film, di un dipinto o di un libro. Essendo io pittore, fotografo e regista, il processo di ripresa è appassionante per me; e soprattutto quando posso filmare me stesso, perché non c’è alcuna barriera tra la mia mente (il modo in cui vivo il momento) e il risultato finale. È un momento autentico e potente, ed è il momento che vorrei che il mio pubblico vivesse.
Il vostro team è composto da professionisti il cui lavoro è stato soggetto di diversi episodi di The Creative Indians. Come e quanto queste collaborazioni ti hanno aiutato nella realizzazione del documentario? E quale strategia hai adottato per raccontare le professioni con cui hai meno familiarità?
The Creative Indians è in gran parte autoesplicativo e chiunque ne faccia parte, come soggetto o come creatore, è alla fine parte di quell’idea. Mi sento estremamente fortunato per aver incontrato artisti così straordinari che, insieme a mio fratello Manil e al nostro team, mi hanno accompagnato durante il mio viaggio trascorso a filmare. Ognuno di loro ha lasciato un segno indelebile su di me, come la leggenda della musica A.R. Rahman, a cui abbiamo dedicato un episodio nel 2017: quell’incontro mi ha cambiato in modi che non riesco a spiegare. Riflettevo sul fatto che un’intera generazione in India è cresciuta ascoltando la sua musica, e noi eravamo lì a filmare la storia della sua vita; è stato surreale.
Nel 2019 ho lavorato sul set con lui e suo figlio per una campagna della Apple, e in quell’occasione mi ha detto di aver visto il suo episodio e di averlo adorato. Wow. Che sensazione. Poi, nel dicembre dello stesso anno, Rahman è stato invitato in Nagaland come ospite principale per l’Hornbill Festival; dopo aver raggiunto il posto mi ha telefonato, e da lì è nato Headhunting to Beatboxing.
Headhunting to Beatboxing, cronistoria musicale di un popolo
Il prossimo progetto di Rohit Gupta sembra distante dal precedente, ma in realtà ne rappresenta l’evoluzione. Il regista ha realizzato infatti un documentario dal taglio ancor più introspettivo, focalizzandosi su un unico soggetto e raccontandolo tramite immagini, suoni, colori, con la storia come base; tutti elementi che collaborano per elevare il concetto di identità come patrimonio prezioso da custodire.
Headhunting to Beatboxing racconta una realtà remota, sconosciuta a molti ma con un bagaglio culturale importante. Sebbene tu abbia una certa esperienza con il genere documentaristico, immagino che l’esperienza sul set sia stata in qualche modo diversa dalla precedente. Puoi dirci come ti sei preparato alle riprese?
L’ho vissuta diversamente sia come visitatore della regione che da narratore. Ho avuto poco tempo per prepararmi, prima di trovarmi realmente a fotografare e documentare l’incredibile paesaggio, la gente e la musica.
Abbiamo girato dal vivo in luoghi improvvisati, e man mano il progetto si è evoluto e ha trovato il suo titolo: Headhunting to Beatboxing; così anche la storia ha potuto prendere forma. In cinque anni mi ci sono ritrovato immerso, e con i ripetuti viaggi sono arrivati sempre più filmati: abbiamo accumulato più di 1800 ore di riprese, utilizzando più telefoni durante le sessioni. Lavorare con una tale quantità di dati ha richiesto tempo, ma un luogo con una storia geopolitica e un bagaglio culturale così intenso è destinato a sopraffarti e a spingerti in molte direzioni.
Dando una prima occhiata al trailer di Headhunting to Beatboxing, emerge un’espressione in particolare: “Rinascita musicale”. Che genere di rinascita speri di incoraggiare con questo documentario? E che tipo di reazione vorresti suscitare nel pubblico?
La musica è presente in natura e intorno a noi, è solo una frequenza che non cogliamo. A livello subatomico, siamo tutti un insieme di minuscole cellule vibranti con un filamento simile a una corda attaccata alle estremità. Questo concetto trova riscontro nella teoria delle stringhe, ampiamente considerata e sviluppata dal fisico teorico italiano Gabriele Veneziano. In sostanza, la musica è estremamente fondamentale per il nostro essere.
Il Nagaland mi ha ispirato perché lì tutto è musicale; il film parla, in un certo senso, del potere di guarigione della natura e della musica e di come una tribù, colpita nel profondo dalla violenza e dallo spargimento di sangue, sia risorta dalle sue ceneri dando vita ad una rivoluzione musicale. Con gran parte del mondo in conflitto, dobbiamo imparare le lezioni dal passato, perché nel corso della storia abbiamo combattuto tanto, eppure siamo ancora così primitivi.
Gandhi diceva: “Occhio per occhio rende il mondo intero cieco”, ed è vero. Sappiamo tutti che la violenza non ci porterà da nessuna parte, ma creerà solo altri traumi e dividerà ulteriormente il mondo, facendoci arretrare: dobbiamo capire che siamo tutti collegati, che lo vediamo o no, perché la musica non è che un linguaggio universale che collega tutto e tutti.
Vorrei che il mondo guardasse a questo film come a un caso di studio, ritratto di uno stato che ha visto la follia della violenza e si è risvegliato grazie alla musica e alla natura, costruendo una nuova “economia creativa”. Si dice che la cultura sia il soft power di un paese, ma io penso che sia invece un superpotere.
Sento che siamo in dissonanza con l’armonia cosmica, e la musica può aiutarci a trovare la nostra risonanza. La musica guarisce. È una medicina cosmica.
Rohit Gupta durante l’intervista di NPC
Come accennato in precedenza, la realtà presentata in Headhunting to Beatboxing è una di quelle ignote o solo debolmente conosciute, che spesso sfuggono ai riflettori. Durante le riprese e in seguito, hai sentito il peso delle responsabilità sulle tue spalle?
Assolutamente sì. Sapere che mi era stata affidata la responsabilità di raccontare la storia di una terra e che il mio racconto avrebbe avuto un impatto sulle vite di così tante persone, a volte mi ha sopraffatto […]. La realtà mostrata nel film non è estranea a nessuno di noi: è un messaggio di non violenza, che esplora l’istinto primordiale di vendetta e cerca di capire dove questo può portare una tribù. Abbiamo bisogno di soluzioni a certe realtà, e questo film potrebbe esserlo.
The Creative Indians ha riscosso un incredibile successo e Headhunting to Beatboxing è piuttosto promettente. In futuro, pensi di realizzare progetti simili?
Mi piace documentare storie che hanno un senso di connessione con la musica e le arti, sia che riguardino persone che aree geografiche. Attualmente stiamo lavorando alla storia di un soggetto molto affascinante: un musicista indiano (vocalist, per essere precisi) che non è più con noi. La musica è il mio linguaggio di comunicazione e, considerato quanto sia fondamentale per la nostra esistenza, sono interessato a come essa influenza gli individui e le geografie e a come possa aiutarci a ritrovare l’armonia perduta con il nostro io.
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