Era il 1949 quando George Orwell scriveva 1984, un romanzo distopico incentrato su una società oppressa dal totalitarismo (diretta conseguenza dei regimi autoritari). Ed è proprio nel 1984 che Terry Gilliam gira Brazil, una rivisitazione dell’opera di Orwell, il capolavoro di un autore che come pochi altri ha saputo dar valore all’immaginazione, all’elemento onirico in termini tecnici, visivi, narrativi, utilizzandolo come fuga dal conformismo (sociale e filmico). Una fuga come quella cinematografica, che agli spettatori può spesso trasmettere serenità, insegnamenti, speranze, quindi illusioni.
Quest’anno Brazil compie quarant’anni, e l’imprecisato presente distopico di Gilliam sembra solo una leggera esagerazione della realtà contemporanea.
Brazil, come liberarsi da un’oppressione normalizzata?

Brazil tratta le vicende di Sam Lowry (Jonathan Pryce), un impiegato del Ministero dell’Informazione. Sam fa il suo lavoro senza sentire la necessità d’esser promosso. Una vita monotona la sua – immutabile – vessata da pressioni sociali che tentano di incatenarlo ad un futuro sempre più claustrofobico. Il protagonista di Gilliam non è un personaggio felice, bensì condiscendente, caratterizzato da una resa che è naturale conseguenza di una società costruita saldamente sul totalitarismo; una società ormai abituata ad obbedire, a seguire quel che è definito normalità, e a dover cambiare con la forza i pensieri anacronistici.
Lowry è stremato da un mondo che non lo ascolta, nonostante urli, nonostante abbia delle opinioni che si oppongono alla massa, viene ascoltato solo ed esclusivamente quando le sue parole trovano dei punti in comune con tutto ciò che è socialmente accettato. In Brazil non c’è spazio per l’opposizione, o per la diversità, né per i sogni. Ed è proprio attraverso questi ultimi, notturni o ad occhi aperti, che Sam troverà la motivazione per ribellarsi al sistema.
Sam Lowry voleva essere un duro
Prima di optare per il titolo Brazil, Terry Gilliam pensò a 1984½, rendendo lapalissiano il connubio tra il capolavoro di Orwell e quello di Fellini. Il regista britannico non ha mai nascosto il suo spirito felliniano, e qui è evidente in particolar modo l’influenza esercitata dalla scena iniziale di 8½: Guido Anselmi (Marcello Mastroianni) è imbottigliato nel traffico, ingabbiato dalla società, poi l’elemento onirico: si libera da essa spiccando il volo. La potenza dei sogni, dell’immaginazione, quindi delle idee che possono renderci capaci di qualsiasi cosa.
Sam Lowry sogna, e in modo ricorrente vede una donna. Sogna d’esser quello che non è, quindi di fare quel che non riesce a compiere nella realtà. Nei sogni può volare, è un guerriero, e ha il coraggio di opporsi al male per dare giustizia alla propria libertà. Nei sogni ha un obiettivo, ed è innamorato. Il suo modo di affrontare la vita cambia quando nella vita reale incontra la donna conosciuta nella sua immaginazione: un segnale che i sogni possono diventare realtà, per cui Sam può avere il coraggio di opporsi al conformismo, quindi lottare, innamorarsi, ed essere libero.
Brazil tra speranze e illusioni
C’è una linea sottile che separa sogni e speranze, immaginazione e illusione, cielo e baratro. In Brazil Gilliam contrappone il fantasy alla cupezza della distopia fantascientifica, con delle atmosfere favolistiche e allucinate – derivate in parte dai suoi precedenti lavori nei Monty Python – che sarebbero poi diventate un segno distinguibile della sua poetica.
Lowry usa l’immaginazione per lottare contro la tirannia totalitarista, in sequenze dove riesce a volare oltre la pesantezza urbana (e terrena) – al di sopra dell’opprimente architettura razionalista – rifugiandosi quindi in un mondo di fantasia per illuminare una tetra realtà, e aggrappandosi a quel che può per rendere reale l’inimmaginabile.
Ma fino a che punto le sue ali potranno volare prima di sciogliersi alla luce di un sole così proibito? Il personaggio interpretato da Jonathan Pryce assume le forme di un moderno Icaro, la cui unica colpa è quella di sopravvalutare i limiti della propria immaginazione, mossi da una speranza utopistica che si sgretola sotto il segno grottesco di una società dove obbedire al conformismo è l’unica opzione. Quel che resta è accettare il mondo così com’è, canticchiando allegre canzoni illusorie (Aquarela do Brazil di Ary Barroso, da qui il titolo del film).
Brazil ci insegna dunque che è giusto cercare la libertà e che è idealmente possibile cambiare le cose, ma c’è un limite. Forse quando questa è esclusivamente legata alla fantasia significa che è ormai troppo tardi. Sono le conseguenze dei regimi autoritari, inizialmente sottovalutati, ma difficilmente sradicabili dalla società se ormai la follia è normalizzata.
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