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Una still tratta dal documentario di Mati Diop, Dahomey: un curatore di una mostra osserva alcuni dei reperti di Dahomey appena arrivati dalla Francia

Dahomey, o dell’arte come gesto politico

8 minuti di lettura

In un’epoca in cui domina il “contenuto”, in cui siamo invasi da una quantità inimmaginabile di prodotti culturali che vengono fruiti e di cui ci si dimentica subito per passare al successivo, in cui si predilige il prodotto superficiale purché sia di “intrattenimento”, film come Dahomey di Mati Diop risultano senza dubbio necessari.

È grazie a pellicole come questa, vincitrice dell’Orso d’Oro come miglior film alla 74a Berlinale, che è possibile ricordarsi che il cinema, come possibile sineddoche dell’arte in un suo senso più ampio, è intrinsecamente politico, e proprio in quanto tale riesce a porre le giuste domande e questioni all’interno della società. Un film del cinema del reale, quello di Mati Diop, in grado, insomma, non solo di mettere in scena con lucidità un dibattito complesso e controverso, ma di saper perpetuare, grazie alla sua esistenza, quello stesso dibattito.

Il ritorno a casa dei manufatti beninesi

Una still tratta dal documentario di Mati Diop Dahomey: un ritratto di una delle ventisei opere d'arte restituite dalla Francia

Nel novembre 2021, la Francia restituisce allo stato di Benin (l’ex Dahomey) 26 artefatti autoctoni, di cui i colonizzatori francesi si sono appropriati nel 1892, più di un secolo fa. L’arrivo di questi manufatti viene celebrato, ma al tempo stesso genera un forte dibattito presso le comunità locali, universitarie e non solo: che valore hanno questi monumenti della cultura beninese per gli abitanti dello Stato dell’Africa occidentale? Questa resa di manufatti e opere d’arte è una conquista – o quantomeno, l’inizio di tale percorso – o rappresenta una sconfitta per tutti?

Quello delle prospettive post-coloniali nel mondo dell’arte è un argomento abbastanza recente – il dibattito sul post-colonialismo viene posto soltanto con la storica mostra del 1989 “Les magiciens de la terre” presso il Centre Pompidou di Parigi, e solo da quel momento il tema ha infiammato i dibattiti del mondo dell’arte in Occidente – e ancora oggi spinoso e controverso. La regista e attrice franco-senegalese Mati Diop, approfittando di questo evento epocale, decide di seguire il viaggio dei manufatti originari di Abomey1 e di riprenderlo per mettere in scena l’atto di “restituzione”, parola chiave all’interno del dibattito post-coloniale.

Diop, in Dahomey, decide di riprendere la vicenda dalla prospettiva dei manufatti stessi, cui lei riesce a donare una voce, che permette alle statue – in particolare ad una, la statua numero 26 – di raccontare le sensazioni provate durante il secolo di prigionia e oblio, e la riemersione improvvisa da esso. Le parole delle opere, rigorosamente in lingua Fon2 e dotate di un’eco eterea e spettrale, gettano una luce sinistra e problematica sugli eventi che esse hanno dovuto vivere sulla propria “pelle”.

Quello usato da Mati Diop in Dahomey è un espediente intelligentissimo, che sottolinea la capacità di questi manufatti di riuscire a comunicare con gli osservatori dopo anni di segregazione nei musei occidentali, lontani dagli occhi di chi condivide con loro la cultura di cui si fanno inevitabilmente simbolo. Attraverso l’artificio del cinema, dunque, le opere tornano finalmente a parlare con chi le guarda – all’interno del film, numerose sono le inquadrature di beninesi che ammirano le opere dei loro antenati con uno sguardo affascinato e partecipato – dopo anni di silenzio.

Dahomey, un film politico, di e sul dibattito

Una still tratta dal documentario Dahomey di Mati Diop: un bambino partecipa alla mostra delle opere d'arte rimpatriate

Quella di Dahomey è una forma di cinema puramente politico, e lo è su molti fronti. La stessa sua volontà di documentare e narrare un evento storico come la restituzione di 26 manufatti da parte di un Paese colonizzatore verso un Paese colonizzato vuole già presentare e problematicizzare una realtà storica come le politiche colonialiste con cui ci stiamo confrontando.

Un passo ulteriore viene fatto nella seconda metà della pellicola, quando Mati Diop decide di riprendere un dibattito universitario sul tema della restituzione. Lasciate le stanze dei musei e gli sguardi dei curatori delle mostre, Dahomey si focalizza, dunque, su un altro luogo della cultura beninese, in cui le idee pullulano e si scontrano inevitabilmente tra di loro. I diversi interventi presentati, infatti, non sono concordi tra di loro, mostrando dunque la varietà delle opinioni e dei pareri in merito a questioni del post-colonialismo, della restituzione e del valore di tale gesto nella società contemporanea.

Tale pluralità di visioni è utile a Diop per mettere in scena la complessità di un fenomeno come quello della decolonizzazione dei Paesi africani e delle loro culture. Cresciuti con la Disney e Tom e Jerry, come dice uno degli studenti che interviene nel dibattito, i giovani beninesi al centro di Dahomey hanno una conoscenza ridotta della portata di tale evento, oltre che del valore culturale degli artefatti riportati in patria. Da questa premessa, si diramano numerosi interventi in cui emergono prospettive e tematiche disparate, dalla pervasività della cultura occidentale che annulla e sminuisce la cultura autoctona del Benin, al dibattito sulle politiche di Macron e di Patrice Talon, attuale presidente del Benin.

Una still tratta dal documentario Dahomey di Mati Diop: una ragazza partecipa alla mostra delle opere d'arte rimpatriate

In questo dibattito, Mati Diop non prende parte, ma si limita piuttosto a registrare e a riportare le diverse posizioni. In questa mancata presa di posizione si cela tutto il senso dell’operazione Dahomey: quello che interessa alla sua regista è usare il mezzo filmico per porre domande, non per fornire facili risposte. Nel suo volersi porre super partes, tuttavia, Diop mette in mostra prospettive nuove ed inedite nel cinema mainstream: attuando politiche di messinscena post-coloniali3, la regista franco-senegalese rifugge da facili modalità di rappresentazione del mondo africano, dando dignità e rilevanza alle persone e al modo di vivere ritratto nel film.

Attraverso uno stile di regia asciutto ma mai privo di inventiva, Mati Diop trascende con Dahomey il semplice film d’inchiesta, per raccontare di alcuni dei cambiamenti epocali – di cui spesso ci si dimentica o, semplicemente, non si parla – della nostra contemporaneità. Il risultato è un’opera ipnotica, piccola nella durata e nella scala, ma densissima in termini di temi; un film completamente disinteressato al discorso artistico-didattico legato alle opere d’arte, in favore, invece, di un’opera politica efficace e capace di generare domande in chi lo guarda. Un film, Dahomey, che ci ricorda il potere che i media come il cinema possiedono nello stimolare il dibattito.


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  1. Capitale dello stato di Benin, oltre che ex capitale di Dahomey ↩︎
  2. Uno dei numerosi dialetti parlati a Benin, orgininario delle popolazioni e dalle tribù autoctone che vivevano nel Paese dai tempi del Dahomey e dunque prima della sua formazione moderna ↩︎
  3. Per approfondire l’argomento, si consiglia la lettura del testo di Leonardo de Franceschi “Lo schermo e lo spettro. Sguardi postcoloniali su Africa e afrodiscendenti” edito da Mimesis Edizioni ↩︎

Classe 2001, cinefilo a tempo pieno. Se si aprissero le persone, ci troveremmo dei paesaggi; se si aprisse lui, ci troveremmo un cinema. Ogni febbraio vorrebbe trasferirsi a Berlino, ogni maggio a Cannes, ogni settembre a Venezia; il resto dell'anno lo passa tra un film di Akerman, uno di Campion e uno di Wiseman.

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