Ogni artista prova un’irrefrenabile fame di raccontare: cambia la forma, cambia la natura del contenuto -o personale o universale- ma la narrazione nasce sempre dal bisogno viscerale di condividere storie. Nel caso di Rahul Bhat, attore indiano che abbiamo avuto modo di incontrare a Cannes, la fame di narrazione ha un motivo ben più remoto e profondo della semplice espressione personale. Quest’anno era al festival francese accompagnando Lost and Found in Kumbh (2025), un dramedy dal sapore internazionale, segnando la sua terza volta sul quel red carpet, prima calcato con due capolavori del cinema indiano contemporaneo Kennedy (2023) e Ugly (2013), entrambi diretti da Anurag Kashyap, entrambi con protagonista Rahul Bhat.
Rahul Bhat visto attraverso la lente della fotografa Stephanie Cornfield, durante il festival di Cannes 2025
La storia di Rahul è lunga e complessa: inizia nella regione del Kashmire, da sempre contesa al nord dal Pakistan e al sud dall’India, a discapito della popolazione Pandit che vive tutt’ora in uno stato di occupazione militare e ha subito una vera e propria migrazione forzata. Rahul Bhat racconta:
“Crescere come Kashmiri Pandit, essere stato costretto ad abbandonare la nostra terra durante l’esodo del 1989-90, lascia un’impronta che non scompare mai, quel tipo di dislocamento ti penetra nelle ossa. Mi ha dato un profondo senso di perdita, ma anche una rabbia silenziosa e una grande fame di raccontare storie che spesso non vengono udite abbastanza. […] Tutto ciò mi ha certamente lasciato la capacità di comprendere a fondo la natura umana.”
Dopo avergli domandato se l’India avesse mai provato a parlare della questione Kashmiri attraverso il cinema, Rahul ha commentato:
“Credo che il cinema indiano abbia solo grattato la superficie del Kashmir: molto di ciò che è stato girato o è propaganda o pornografia del dolore. C’è poco che catturi la vera natura del luogo: lì ci sono bellezza, sofferenza, storia, il costo umano del conflitto… c’è stato un film intitolato Haider che aveva i suoi momenti interessanti, ma che ho comunque trovato superficiale. […] Credo che non abbiamo ancora fatto giustizia alla storia del Kashmir, specialmente all’esperienza Pandit […] credo che in generale si sia fatto molto poco a riguardo. Ci sono documentari, ma poca narrazione… credo che questo cambierà molto presto, perché le persone sono finalmente interessate alla zona e i giovani Kashmiri in primo luogo sembrano molto promettenti: molto presto si potrebbero vedere film e progetti arrivare direttamente da lì. È arrivato il momento di non essere più un nota nella storia di qualcun altro, è il momento che siano i Kashmiri a raccontare la propria storia.”
Rahul Bhat, in evoluzione continua tra cinema e serialità
In seguito agli anni difficili dell’infanzia, Rahul Bhat si è dedicato inizialmente alla carriera da modello nel mondo della moda, attraverso cui è poi arrivato ai primi ruoli minori in pubblicità e video musicali. Il successo arriva poi nel 1998, anno in cui Rahul diventa protagonista della seguitissima serie tv Hindi Heena, che lo rese un idolo delle masse dal ’98 al 2003. Dopo alcuni ruoli cinematografici ottenuti nel 2005, Rahul Baht decide di prendersi qualche anno sabbatico dalla recitazione: i personaggi che gli venivano offerti non lo soddisfavano. Rahul Bhat ricorda di quel periodo:
“Ero arrabbiato, perché sapevo di essere capace di interpretare più di uno stereotipo o una comparsa nel viaggio di qualcun altro. Volevo ruoli che mi mettessero alla prova, che mi spaventassero… se non mi mette un po’ a disagio e non mi lascia dubbioso non lo tocco, sai? I personaggi dovrebbero avere qualcosa che scalpita dentro, una contraddizione o una ferita. Ho smesso di scegliere ruoli in base allo screentime, scelgo solo in base all’impatto emotivo del personaggio. In quel periodo [primi anni 2000] c’era un certo tipo di cinema Bollywoodiano dove importava più la musica e il gradimento popolare, ed io semplicemente non riuscivo a vedermi in quella visione di cinema. Ma ora i tempi stanno cambiando e abbiamo registi molto interessanti come Payal Kapadia a Cannes con All we imagine as light o Chaitanya Tamhane che ha fatto Court (2014).”
Fra questi registi indiani con una rinnovata cifra stilistica autoriale troviamo il già citato Anurag Kashyap: il suo cinema, violento, cupo ed iper-stilizzato, gli ha consentito di ritagliarsi un pubblico festivaliero internazionale e molto numeroso; i titoli più di spicco sono di sicuro i due capitoli di Gangs of Wasseypur (2012), Dev.D (2009) ed ovviamente Ugly che segna la prima collaborazione fra il regista e Rahul Bhat, nonché il ritorno dell’attore al cinema dopo il periodo sabbatico. Proprio commentando il suo legame con Kashyap, Rahul Bhat afferma:
“Anurag e io abbiamo un sacco di storia assieme: vivevamo nello stesso posto quando stavamo iniziando a lavorare entrambi ed eravamo in difficoltà… e poi posso dire che noi due parliamo lo stesso linguaggio cinematografico. Lavoriamo entrambi col caos, con la rabbia per mostrare il lato sommerso delle cose. Lui si fida di me e quella fiducia mi “mette le ali” da attore. Non mi tratta da sprovveduto, mi lancia dritto nel fuoco e lascia che mi bruci cercando la via d’uscita da solo. Ti spinge dalla montagna più alta, ma ti afferra anche: questo tipo di collaborazione non avviene spesso, questa crudezza e veridicità garantiscono molta fiducia, affetto e rispetto l’uno verso l’altro. Dopo aver girato tre film con lui ho sviluppato una certa tensione misteriosa che credo si rifletta anche sullo schermo.”
Eppure Rahul Bhat non si è veramente fermato nei dieci anni nei quali si allontanò dalla recitazione: ha prodotto moltissime serie fra cui Meri Doli Tere Angana (2007-08) e Tum Dena Saath Mera (2009), entrambe connotate da una forte attenzione a temi sociali quali l’indipendenza femminile e le difficoltà di individui con disabilità fisiche. Ripensando a quelle esperienze Rahul commenta:
“Preferisco indubbiamente recitare, del resto è la mia passione dall’infanzia, sapevo chiaramente che sarei stato un attore… eppure la produzione semplicemente ti succede, è naturale farlo ad un certo punto, ma è solo un passo che arriva più tardi quando vuoi raccontare le tue storie. […] Recitare mi dà un senso di adrenalina, è quasi intimo farlo. Produrre invece ti dà la possibilità di modellare la narrazione nel suo intero, puoi supportare le storie in cui credi e dare voce ad attori che altrimenti non sarebbero ascoltati. Produrre è una responsabilità, recitare è una catarsi.“
Eppure nonostante i radicali cambiamenti che hanno percorso il mondo cinematografico indiano di cui ha parlato Rahul Bhat, la situazione rimane complessa per i piccoli autori ed i film festivalieri: due esempi delle difficoltà incontrate dal cinema d’autore indiano ad ottenere una giusta distribuzione interna al paese sono proprio All We imagine as light e Kennedy, ultima fatica condivisa da Rahul e Anurag Kashyap. A questo proposito Rahul conferma:
“Non abbiamo ancora costruito un ecosistema nel quale storie silenziose possano essere raccontate: i film da festival non sono progettati per scatenare l’applauso in sala o per avere un appeal di massa. Sono pensati per farti confrontare col silenzio, per farti fare domande, ma in India spesso non trovano una distribuzione perché qualcuno decide arbitrariamente che non venderebbero. Spezza il cuore, ma nonostante si vada a Cannes e si ottenga una standing ovation, in patria ti scontri col silenzio. Credo ci servano spazi di proiezione migliori e più coraggio dalle produzioni. Kennedy ha ottenuto una grandissima risposta dal pubblico sia a Bombay che Calcutta quando è stato proiettato in India… non so poi cosa succeda, perché altre persone dell’industria cinematografica siano invece spaventate da film profondi… credo solo ci servano migliori persone in carica delle decisioni sulla distribuzione.”
Proprio di recente Rahul Bhat si è prestato per un prodotto Netflix che invece cerca proprio di intercettare il grande pubblico: Black Warrant (2025) è una serie originale che racconta di un ufficiale carcerario che dopo aver assistito alla corruzione del sistema giura di redimere sé stesso e di combattere le storture di quel mondo di violenza. A proposito Rahul racconta:
“Black Warrant è una bestia rara. Nella narrazione lunga hai la possibilità di “correre una maratona” e lentamente far uscire nuove domande sul personaggio, mentre nei film fai uno sprint. Per me il processo rimane comunque lo stesso, rimane il processo della verità: che siano due ore o otto episodi io devo credere nel mondo che recito. Black Warrant era proprio così, era reale e crudo, nasceva da un bisogno molto urgente di raccontare. Eppure credo che recitare nel lungo o nel corto parta comunque dall’onestà con cui vivi l’esperienza.”
Sempre sull’esperienza internazionale di Netflix, Rahul Bhat aggiunge:
“Hollywood è un sistema con infrastrutture nel quale film indipendenti hanno accesso a certe protezioni e piattaforme che li aiutano, mentre l’industria indiana, che abbiamo malauguratamente deciso di chiamare Bollywood, è ancora molto incentrata sulla personalità del singolo attore o regista. […] Con Netflix cambia la scala produttiva: c’è una nuova responsabilità nel raccontare qualcosa di globalmente rilevante… credo sia un periodo di transizione per l’India, come già detto lo storytelling si sta evolvendo e più riusciamo a coniugare il personale con l’universale più le nostre storie diventeranno potenti.”
Ancora a proposito della portata internazionale del suo lavoro, Rahul ha anche condiviso alcuni dei nomi coi quali più gli piacerebbe lavorare fuori dall’India:
“Ce ne sono così tanti. Adorerei lavorare con Asghar Farhadi, il modo in cui cattura l’umanità con tanta semplicità è meraviglioso. Adoro Ruben Östlund per il suo senso dell’umorismo macabro e il suo commentare la società contemporanea, o ancora Thomas Vinterberg… Un altro Giro, che film! Oppure Yorgos Lanthimos, Jane Campion, Sofia Coppola, Kathryn Bigelow… potrei continuare per ore e ore! L’Occidente ha grandissimi autori, ma anche l’India ne ha diversi: Kashyap, Kapadia, Tamhane e molti altri!”
Per concludere e rimare con le prime domande sul suo passato, abbiamo chiesto a Rahul Bhat se oltre a recitare e produrre avesse un qualche interesse per il futuro a scrivere o perché no, dirigere un film. Lui ha risposto:
“Certo, ho appena finito di scrivere una sceneggiatura intitolata His Land, basata sulla mia esperienza del Kashmir. Ne sto anche scrivendo un’altra, To Hell with Heaven, anche questa autobiografica. Si tratta di scrittura molto cruda, molto onesta… non ero sicuro di riuscirci, ma una volta che ho iniziato è diventanyo inevitabile. Un giorno farò anche il regista, non perché sia il successivo passo nella mia carriera, ma perché certe storie necessitano di un livello di controllo totale sulla produzione. Spero molto di riuscire a raccontare le storie di cui parlavamo prima, che vengano da Kashmiri sui Kashmiri.”
Dalle parole di Rahul Bhat emerge soprattutto un unico messaggio espresso a più riprese di grande coerenza artistica: l’onestà nel raccontare quelle esperienze e quei sentimenti flebili, difficili da sentire in mezzo al brusio della narrazione solo d’intrattenimento. Il cinema ha più volte dimostrato che dare voce, usare la propria per sollevare quella di chi ha subito soprusi e umiliazioni, è l’utilizzo forse più nobile della macchina da presa. L’importante è continuare ad avere fame di storie che possano illuminare gli angoli più bui della Storia, sia da creativi che da spettatori.
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