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migliori film 2024

I migliori film del 2024, secondo noi

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27 minuti di lettura

Ci sono amori che non finiscono mai, e così vale anche per il nostro nei confronti delle liste. Anche per quest’anno, quindi, cerchiamo di scovare il meglio dell’anno, consapevoli che qualcosa si è per forza dovuto perdere nel lungo elenco di uscite annuali. Al di là delle Serie, dell’animazione, dei film italiani e dei documentari, a cui abbiamo dedicato liste apposite, il 2024 ha segnato un anno interessante sotto diversi aspetti, e anche non per forza da quello del “meglio” che abbiamo potuto vedere (basti solo pensare che il film più chiacchierato in Italia quest’anno è senza ombra di dubbio PAP music).

Ma tornando ai migliori film del 2024, anche in questo caso l’amore c’entra, e parecchio. Nei film scelti c’è amore di tutti i tipi: inteso più in senso puro, come rappresentato nel secondo capitolo della trilogia dedicata ai rapporti interpersonali del regista tedesco Christian Petzold Il cielo brucia, ma anche quello adolescenziale e di crescita de Il regno animale, per non parlare delle varietà contemporanee messe in campo dalla sex worker Anora e dalla narcisistica Sue in The Substance. E non è forse un inno all’amare una vita semplice, presa per la sostanza che è e non la facciata che rappresenta, quei Perfect days messi in campo dal maestro Wim Wenders.

Tutto il resto non è a fare da contorno (ovviamente, altrimenti non sarebbe più il meglio del meglio), ma semplicemente l’essenziale e l’imperdibile che secondo la redazione di NPC Magazine rappresenta maggiormente l’anno appena passato. Un cinema che sta cambiando, lascia nazioni per trovarne altre (mai così poche produzioni americane in una classifica), sguardi, pensieri e modi di dare vita e senso al mondo. Non per forza i più grandi (abbiamo clamorosamente ignorato Dune 2 per esempio, nonostante la sua oggettiva qualità tecnica) preferendo quei prodotti che invece ci hanno colpito maggiormente, e che sono stati più in grado di recepire e leggere il contemporaneo. Non film perfetti, quindi, ma perfettamente inquadrati. Almeno, secondo noi. Buona lettura.

Anche se questa è una lista corale riuscita solo dopo intense conversazioni sui gruppi Whatsapp di redazione, non vuol dire che ciò rispecchi esattamente le preferenze di ciascuno dei collaboratori. Per visionare le liste personali di tutti abbiamo quindi lasciato i link ai nostri profili Letterboxd, che trovate in fondo alla pagina.

Do not expect too much from the end of the world

do not expect too much from the end of the world radu jude migliori film 2024

Pochi film riescono a parlare di noi, senza guardare al futuro o al passato. Ancora meno riescono a farlo in maniera efficacie come quella adottata dal rumeno Radu Jude in Do not expect too much from the end of the world: musiche piene di oscenità che rimbombano per le strade, ingorghi biblici, ripetizioni di immagini in un continuo ed estenuante riciclo di idee, mega-corporazioni che espongono copie del Capitale di Marx laminate in oro come trofei.

La Bucarest di Jude dialoga proattivamente – dilatandone i tempi, zoomandone i dettagli e rimontandone la sequenzialità – con quella di un vecchio film di propaganda comunista, Angela tira avanti (1982), la cui attrice protagonista qui compare forse nel ruolo di sé stessa (l’attrice) o forse nel ruolo di sé stessa (la protagonista), creando un cortocircuito narrativo che non lascia intendere se il film di propaganda fosse davvero solo narrazione politica o realtà: il risultato è il completo collasso delle immagini con cui la finzione si mescola alla realtà, tema reiterato dal film più e più volte anche col ricorrente utilizzo di filtri social, di video presi direttamente da TikTok, di comparsate di registi nel ruolo di sé stessi (Uwe Boll regista famoso per fare film osceni e per aver picchiato sul ring un critico che ne aveva scritto male).

Jude vuole dirci diverse cose: che l’intrattenimento ormai deve essere fisiologicamente osceno per ottenere un riscontro economico, che la propaganda non ha mai smesso di esistere e si è solo spostata dal cinema ai social (tutto il film è in bianco e nero tranne per le immagini mediate da schermi) cambiando ideologia a cui asservirsi – il trionfo del neoliberismo è avvenuto anche grazie a vergognosi film di propaganda negli anni ’80 e continua ad incancrenirsi grazie alla inarrestabile popolarità dei social – e che la fine del mondo è già qui: non ci saranno asteroidi o invasioni aliene a decretare la nostra fine, perché siamo già finiti; l’Apocalisse è già nella cultura che consumiamo, nei ritmi che abbiamo scelto per la nostra società, nel marcio che ci circonda e che perpetriamo su chi ci circonda.

Anora

Un'immagine tratta da Anora di Sean Baker: un primo piano di Anora (Mickey Maddison) migliori film 2024

L’ormai pluripremiato regista statunitense Sean Baker è spesso descritto come l’unico vero regista neo-neorealista ad aver sviluppato una voce sicura in America. Anora, miglior film di Cannes 2024, ne è la prova definitiva; non perché i temi affrontati da Baker siano sempre vicini ai problemi delle classi meno abbienti, né per il suo riconoscibile stile visivo, una sorta di look iperrealista fatto di pori in alta definizione e colori saturi, ma piuttosto per le atmosfere intessute nella scrittura.

Ma andiamo con ordine: protagonista è Anora (Mickey Maddison), una spogliarellista che di colpo si trova al centro delle attenzioni del giovane e scapestrato rampollo di una ricca famiglia russa, Ivan (Mark Eydelshteyn); dopo essersi sposati a Las Vegas, i due dovranno affrontare l’ira dei genitori di lui e dei loro scagnozzi. Il cinema di Sean Baker e quest’ultimo suo film, è neo-neorealismo soprattutto perché proprio come l’originale manciata di autori che hanno definito lo stile “Rossellini, De Sica, De Santis” riesce a passare con estrema disinvoltura da momenti prettamente comici a sequenze di profonda tragedia, senza snaturare la coesione narrativa dei film. Se Roma Città Aperta (1945) vedeva Aldo Fabrizi protagonista sia di puro slapstick sia di una tremenda fucilazione, Anora può vantarsi di essere il film più divertente del 2024 fino ai suoi ultimi 40 minuti, fra i più genuinamente devastanti proiettati al cinema quest’anno.

The zone of interest

La rappresentazione cinematografica dell’Olocausto è una problematica che pone diversi quesiti di ampio respiro: come si dovrebbe porre l’occhio cinematografico rispetto alle immagini della tragedia, della morte sistemica, in breve, dell’orrore? Da Schindler’s List di Spielberg a Shoah di Lanzmann, gli autori di cinema hanno tentato diversi approcci che col tempo hanno fatto scuola e dato vita a principalmente due grandi filoni che rispondono in maniera opposta a questa domanda: mostrare o non mostrare? Una domanda di tipo narrativo, etico, politico, che nasce da altre preoccupazioni viscerali: come raccontare l’indicibile? Come mostrare la distruzione assoluta? Qual è il confine tra rappresentazione e spettacolarizzazione, tra racconto e semplificazione?

La zona di interesse di Jonathan Glazer riprende questo discorso e apre una strada alternativa, che mette in crisi la dicotomia stessa tra visibile/invisibile, mostrare e non mostrare. Con il racconto claustrofobico della vita quotidiana del comandante di Auschwitz Rudolf Hob (Christian Friedel) e della sua famiglia, limitato al perimetro della loro casa con giardino adiacente al muro del campo di sterminio, Glazer mette in discussione il primato della vista, portandoci a dubitare (con l’ausilio del suono) ciò che stiamo vedendo, se non a rifiutarlo completamente. La zona di interesse è costruito su un grande vuoto, su un rimosso della memoria che si replica nella contemporaneità e ci costringe a interrogare quell’assenza, mettendoci nella condizione di andare oltre la tirannia delle immagini, di ricercare ciò che viene nascosto, cancellato. Non possiamo ignorare un dolore, una tragedia, uno sterminio così platealmente rimossi: il suono di ciò che avviene al di là del muro ci guida al di fuori di ciò che vediamo, oltre i confini dell’immagine. In quei margini sonori c’è la vera zona di interesse che si fa spazio tra il giardino di rose e si insinua tra le crepe dell’immagine pastello della perfetta famiglia nazista.

All We Imagine As Light

migliori film 2024 all we imagine as light una scena del film

All We Imagine as Light di Payal Kapadiya è un film serale e urbano. Un film che racchiude in sé, in una perfetta corrispondenza tra forma e contenuto, estetica e narrazione che ci porta a definirlo poetico, gli ultimi bagliori del giorno e le fioche luci artificiali della sera, di quello spazio antecedente alla notte dove l’umanità si toglie la giacca e si riversa nei bar, nei pub, nei locali, alla ricerca di una vicinanza perduta, di un’intimità in mezzo alla disconnessione.

Vincitore del Grand Prix al Festival di Cannes, All We Imagine As Light racconta attraverso immagini tangibili quanto evocative il rapporto tra Prabha, infermiera all’ospedale di Mumbai e la sua coinquilina Anu. Kapadiya ci mostra con delicatezza la vita quotidiana delle due ragazze e i dolori che nascondono dietro i ritmi estenuanti della routine in una grande città dove l’individualità si annulla e rimane sempre meno spazio per la cura, l’attenzione e la tenerezza.

La sera è il fulcro narrativo del film di Payal Kapadiya: fine della giornata lavorativa, momento ibrido in cui lo spettro dei doveri lavorativi infesta e deforma i contorni di quello che dovrebbe essere il tempo libero individuale, dedicato al riposo, alle passioni, ai legami umani. Un racconto che passa attraverso il tempo, la sera, e lo spazio, quello urbano, declinandoli attraverso una lente politica e poetica che mette in luce le disuguaglianze di classe e il loro impatto sui rapporti umani. All We Imagine As Light è un potente spaccato di realtà che non ha paura di mostrare possibilità di evasione e di contronarrazione, spiragli di luce naturale tra i bagliori artificiali.

Il gusto delle cose

Un’epopea culinaria, ma anche qualcosa di più: ne Il gusto delle cose di Trần Anh Hùng il cibo diventa un veicolo di significati, legami, filosofie di vita. Il gusto delle cose racconta la storia di Dodin Bouffant (Benoît Magimel), famoso gourmet francese di fine Ottocento e della sua cuoca Eugénie (Juliette Binoche). Osserviamo la vita quotidiana dei due, legati da un profondo rapporto di stima e di amore, e l’articolarsi del loro linguaggio condiviso, fatto di spezie, stoviglie e ricette che da liste di ingredienti e processi diventano storie, consigli, discussioni filosofiche e dichiarazioni amorose.

Attraverso una mise en scéne sontuosa e dettagliata che trova nella cucina del gourmet Dodin e della straordinaria cuoca Eugénie il suo fulcro estetico, narrativo e sentimentale, Il gusto delle cose compone un grande quadro di gesti e movimenti che diventano racconto. Un amore scomposto nei suoi minimi termini e mostrato nel suo farsi quotidiano, nell’esecuzione tenera e precisa dei passaggi di ogni ricetta. Il film di Trần Anh Hùng è l’esempio di un cinema che crede nella potenza delle immagini e nell’importanza dei racconti che passano attraverso la materialità delle cose.

Il cielo brucia

Il cielo brucia christian petzold migliori film 2024

Roter Himmel in tedesco vuol dire letteralmente il cielo rosso. Ed è proprio di rosso (colore del fuoco, ma anche della passione) che si tinge il secondo capitolo della trilogia dedicata alla difficoltà delle relazioni interpersonali del regista tedesco Christian Petzold, dove gli elementi della natura sono co-protagonisti pulsanti. E se in Undine spicca il colore celeste brillante dell’acqua, la perturbata storia di Leon (Thomas Schubert) si ricollega all’infiammare lento ed inesorabile dello spazio che lo circonda.

Romanziere in prova, Leon si ritira a scrivere con l’amico e studente di fotografia Felix (Langston Uibel) che lo invita nella casa di famiglia estiva nel nord della Germania. Al loro arrivo trovano però una coinquilina: la disinibita e socievole Paula Beer. Leon sbuffa, allo stesso tempo è curioso (ma non vuole neanche darlo a vedere), e mentre si chiude nell’infruttuosa scrittura di un nuovo romanzo, intorno a lui tutto brucia di amore, di rapporti che sbocciano e fioriscono; e, viceversa, brucia il tempo, crescono tumori, cancrene mentali, ma anche in senso letterale il bosco che rischia di inghiottire la casa, che si trasforma in una gabbia man mano sempre più stringente attorno ai protagonisti.

Petzold costruisce l’immagine di un’intellettuale che, dall’alto della torre d’avorio, si rinchiude dimostrando ottusità e allo stesso tempo palesando, con spavalderia, una verità tutta sua che dà con cinismo per assoluta. L’artista come figura di illuso, chiuso al mondo, capace di amare solo alle sue regole, nel suo scetticismo raffigura universalmente la condizione di un uomo contemporaneo inadatto nel guardarsi intorno, alza la testa al cielo solo quando sente odore di bruciato. Autentico capolavoro, di misurata sostanza filosofica.

The Beast

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Approdato con ritardo e in (purtroppo) poche sale italiane, The Beast di Bertrand Bonello si rivela essere uno dei più interessanti film di quest’annata. Nel 2044, la società ha raggiunto un livello tecnologico strabiliante, a tal punto da aver sviluppato un programma di intelligenza artificiale in grado di analizzare le vite passate di un individuo e di rielaborarle col fine di rimuovere definitivamente ogni trauma e ogni forma di dolore. Attingendo da questo contesto fantascientifico, Bonello riesce così a dipingere ambientazioni incastrate in tre epoche distanti fra loro, abitate dai due protagonisti principali Gabrielle (Léa Seydoux) e Louis (George McKay).

The Beast è di fatto un film complesso, impossibile da descrivere in poche righe per la quantità di tematiche e di riflessioni che pone sul tavolo e per la cripticità enigmatica che lo avvolge. Cos’è la bestia? Un pericolo? Una persona? O la paura stessa, che vive dentro di noi e governa le nostre scelte? L’interrogativo non viene avvalso di una risposta e Bonello lascia a noi l’interpretazione, facendoci immergere in una cornice cinematografica di altissimo livello che riesce, tra atmosfere surreali riconducibili al miglior Lynch, a estraniarci e affascinarci. Una storia d’amore che attraversa il tempo, trasportando lo spettatore in luoghi e momenti differenti grazie al racconto di due anime perse che si intrecciano in una danza apparentemente senza fine. Una riflessione sulla vita e sulla responsabilità emotiva legata ad essa, fondata sulla scelta di affrontare o meno il rischio del dolore e il suo pesante fardello.

Il Regno Animale

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Presentato in anteprima alla 76esima edizione del Festival di Cannes, per la sezione Un Certain Regard, Il Regno Animale è una favola fantascientifica sulla metamorfosi e sulla diversità, che affronta temi fondamentali come l’emarginazione e la solitudine. Il film racconta la storia di François (Romain Duris) e suo figlio sedicenne Emile (Paul Kircher), costretti a trasferirsi al sud della Francia per seguire la madre, affetta da uno strano morbo ormai molto diffuso da ben due anni in tutto il paese. La malattia, infatti, causa incredibili mutazioni genetiche che portano l’individuo a trasformarsi, passo dopo passo, in una creatura antropomorfa che presenta tratti bestiali.

Uomini ricoperti da piume come uccelli, scaglie di serpenti o zanne di leone, costretti a vivere, per la scelta del governo, in una forzata cattività sanitaria.
Un giorno però, durante un trasferimento da una struttura all’altra, l’automezzo subisce un incidente e molti dei pazienti, compresa la madre di Emile, fuggono nella foresta. Da qui inizierà la ricerca della donna da parte di François e del figlio che, di giorno in giorno, comincerà a notare insoliti cambiamenti nel proprio corpo.

Con il suo piglio surreale e dispotico, Il Regno Animale è un’opera che, partendo da un contesto famigliare, si ramifica verso svariati temi, come la solitudine, il rapporto dell’uomo con la natura e con la sua indole interiore più selvaggia. Un film affascinante e inquietante che, grazie alle sue atmosfere dark e avvolgenti, riesce a incantare lo spettatore cullandolo in un mondo assurdo che fa della diversità la propria forza, accogliendo l’emarginazione e elevandola a una caratteristica da cui attingere per spiccare il volo e riuscire a vedersi da una prospettiva nuova e più ampia. Una nota di merito, oltre che a tutto l’apparato tecnico visivo, va infine alla colonna sonora scritta dal cantautore italiano Andrea Laszlo De Simone, capace di intercettare ogni atmosfera valorizzando le immagini che la accompagnano.

The Substance

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«Hai mai sognato una versione migliore di te?». Su questa domanda-slogan si fonda il racconto di The Substance, seconda opera di Coralie Fargeat, scoperta dell’anno per la sua forte messa in scena e la natura cupa e disturbante. Il film racconta la vita dell’attrice Elisabeth Sparkle (Demi Moore) che, dopo esser stata allontanata dai riflettori di Hollywood a causa della sua età, sceglie di affidarsi a una misteriosa cura che promette di restituirle una versione rinnovata e migliore di sé stessa. Dopo una metamorfosi violenta, nasce così la giovane Sue (Margaret Qualley), nuovo alter-ego di Elisabeth che, giorno dopo giorno, proverà sempre di più a sostituire la sua versione originale, causando irreversibili e terribili danni.

Avvalendosi della sua eccentrica storia, The Substance è una fotografia del nostro tempo e della malattia causata dal successo e dal mondo dell’apparenza. Un male che, indubbiamente, si lega al morbo del capitalismo e del maschilismo patriarcale, intento ad avvelenare costantemente la società e chi la abita. Un racconto violento ed estremo, costellato da colte e numerose citazioni cinematografiche, che si rivela in grado di cucire intorno allo spettatore un costante abito di tensione. Un’opera coraggiosa e dall’animo punk che si fa spazio nel mondo dello spettacolo cinematografico oggigiorno sempre più abitato da fenomeni passeggeri e mere forme, fin troppo spesso, prive di sostanza.

Perfect days

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The Tokyo Toilet è il progetto ambizioso che il Comune di Shibuya (uno dei tanti quartieri della capitale giapponese) ha messo in piedi a partire dal 2018 per riqualificare la zona, molto frequentata, anche da turisti. L’Amministrazione ha così chiamato diversi architetti di fama internazionale che hanno realizzato 17 bagni pubblici in diversi spazi con l’obiettivo di fornire alla popolazione un servizio igienico e allo stesso tempo che si sposasse con il territorio.

Per sponsorizzare il tutto sempre il Comune ha chiamato Wim Wenders che gli commissiona un documentario su Tokyo Toilet. Lui invece decide di inserirci niente poco meno che Kōji Yakusho, manutentore dei bagni pubblici di mezza età, e ne realizza un film di narrazione tra i meglio riusciti, presentato a Cannes ’23, e in sala da noi il gennaio scorso.

Perfect days sono i giorni che passa l’operatore ecologico Hirayama, in una routine scandita rigorosamente dal lavoro di pulizia delle toilet e dall’umile tempo libero: leggere romanzi, ascoltare musica, il caffè della mattina al solito distributore automatico, il relax nel bar sotto casa, o all’onsen (bagni termali giapponesi), il rapporto tra colleghi (non sempre facile ma mai conflittuale). Il film diventa così una parabola sul vivere bene a partire dalle cose semplici, un inno alle comfort zone, che vuole innanzitutto mettere a proprio agio lo spettatore – in fondo il tutto è partito da una trovata promozionale – nel ritrovare sé stessi in una routine essenziale, mai esagerata o al limite. Perfect days raggiunge la perfezione nel suo essere imperfetto, nel presentare, in una realtà in cui ormai la sovrastimolazione è ovunque una sua antitesi che non scade mai nella mera nostalgia. Universale ma soprattutto generazionale, è la vita di un uomo alle soglie del tramonto della sua vita, in una bolla “diversa” in un mondo di tante altre bolle uguali tra loro. E anche se l’obiettivo poteva essere solo quello pubblicitario, ora è un film che parla soprattutto a noi giovani e che ci invita a continuare a sognare… alla nostra maniera.

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Olmo Giovannini

Andrea Marcianò

Sofia Racco


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Studente alla Statale di Milano ma cresciuto e formato a Lecco. Il suo luogo preferito è il Monte Resegone anche se non ci è mai andato. Ama i luoghi freddi e odia quelli caldi, ama però le persone calde e odia quelle fredde. Ripete almeno due volte al giorno "questo *inserire film* è la morte del cinema". Studia comunicazione ma in fondo sa che era meglio ingegneria.

Classe 1999, una delle tante fuorisede in terra sabauda. Riguardo periodicamente "Matrimonio all'italiana" e il mio cuore è diviso tra Godard e Varda. Studio al CAM e scrivo frammenti sparsi in giro per il mondo.

Appassionato e studioso di cinema fin dalla tenera età, combatto ogni giorno cercando di fare divulgazione cinematografica scrivendo, postando e parlando di film ad ogni occasione. Andare al cinema è un'esperienza religiosa: non solo perché credere che suoni e colori in rapida successione possano cambiare il mondo è un atto di pura fede, ma anche perché di fronte ai film siamo tutti uguali. Nel buio di una stanza di proiezione siamo solo silhouette che ridono e piangono all'unisono. E credo che questo sia bellissimo.

Nato nel 1993 , giusto in tempo per vedere Pulp Fiction l’anno dopo. 
Sono un musicista che ha una passione patologica per il cinema. Adoro la sala e sono fermamente convinto che debba esistere un girone infernale per quelli che parlano a voce alta durante il film. Scrivo, vivo, faccio cose, vedo gente.

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