Bisogna averlo insito nel DNA il coraggio di Bertrand Bonello. Non è da tutti i registi, che intendono definirsi grandi interpreti della tecnica cinematografica, saper dimostrare che il cinema è oggi un tutt’uno con il corpo umano. A decretarlo è l’incredibile La bête, in Concorso a Venezia80; un film che è meta-cinema ma anche meta-umano, rappresentazione lucida della trasformazione di un intero sistema, e paura cosciente di subire tutti i cambiamenti radicali – intelligenza artificiale, s-personificazione della star e via dicendo – annunciati da tempo.
Non è casuale quindi che un film come La bête sbarchi al Lido di Venezia in questa atmosfera surreale, a sugellare un patto con gli scioperanti di Hollywood, a farsi da complice attivo della causa più grande: che ne sarà dell’attore, se del corpo non c’è più sostanza, ma solo pixel sparsi in spazi interdimensionali?
Di cosa parla La bête?
La bête, film distopico con Léa Seydoux e George MacKay (il soldato in 1917), è ambientato in un futuro prossimo governato dalle intelligenze artificiali, in cui le emozioni umane rappresentano una minaccia. Gabrielle inizia, quindi, un processo di purificazione che la porterà a vivere vite dei secoli passati e a incontrare ripetutamente l’amore della sua vita, Louis.
Fingere, fingere e ancora fingere
Grande virtuosismo alla regia e alla sceneggiatura per un’opera avanti anni luce. A partire dalla figura di Seydoux, che vediamo fin da subito immersa tra il verde del green screen di un teatro di posa e il nero melma della sostanza viscosa in cui si immerge per compiere i trattamenti. Il corpo di un’attrice non è mai stato così oggetto, scavato del suo significato ancestrale.
La recitazione, d’altronde, nell’era della computer grafica, è divenuta una finzione nella finzione: l’attore, immerso nella scatola verde dello studio, deve fingere di appoggiarsi a un muro di pietra, fingere di vedere un’ombra dietro di sé, fingere di essere investito da un’auto. La bête parte proprio da questa immagine grottesca, ovvero dall’assenza stessa della bestia annunciata dal titolo. Un viaggio nei mondi possibili perché fuori, nella realtà, ormai la vita è insostenibile: l’intelligenza artificiale ha completamente spodestato l’essere umano da ogni mansione, le strade di Parigi sono vuote e le “bambole” servono l’uomo in ogni suo bisogno (o capriccio).
La bête, la distopia dell’arte che apre molti (giusti) interrogativi
Un po’ Ex machina, un po’ Blade Runner 2049, con lo spirito di Her, La bête mostra il futuro prossimo del post-lavoro, della vita su schermo, del salto nel buio della società e della latente mancanza di innovazione. Tutto è servito, tutto è facile e di conseguenza le emozioni spariscono, diventando esse stesse assimilabili tramite simulazioni iniettate in provetta. Da cambiamento radicale a sovvertimento cinico, come nella vita anche nell’arte.
Ma quel futuro prossimo, come ci hanno già ricordato molti episodi di Black Mirror, è in realtà più vicino a un presente realistico. Perché altrimenti andrebbero di moda Serie TV come Stranger Things e sempre più eventi musicali nostalgici a tema anni ’90, ‘80, ‘60 che rappresentazioni di artisti contemporanei? Perché il cinema va avanti a saghe reiterate? Perché abbiamo smesso di inventare musica nuova? Sfide, o meglio, diffide sulla realtà che viviamo e sul futuro incerto dell’arte. Come ammirare un’opera d’arte in un mondo in cui non ne esiste più il concetto?
Un locale nel film, tanto frequentato e apprezzato da Gabrielle e Louis, non può che infatti cambiare stile di giorno in giorno. Prima è un bar ambientato nel 1973, poi nel 1980, ma alla domanda “perché proprio il 1973?”, una ballerina risponde: “perché è bella musica, no?”.
Si vive nel passato per dimenticare il presente, spesso si dice. Ma anche in un presente vuoto la regola non cambia, e l’arte nemmeno. Giace impolverata dal tempo. Ecco come un concetto distopico diventa il dramma del presente.
La bête, film di finzione o documentario?
Non è un caso allora se Bonello, a proposito de La bête, dirà che è quasi un documentario su un’attrice. Gli scioperi degli ultimi mesi, che hanno influito anche sulla programmazione di Venezia, sono in fondo una tra le tante prove che spiegano le molte paure dei lavoratori nel campo del cinema in merito al tema dell’intelligenza artificiale. Il film è in questo un’opera lucida e dissacrante sull’intero Hollywood system. L’immagine glitchata di Gabrielle e Louis ci ricorda che gli esseri umani non sono più fatti di carne e ossa, ma di pixel.
Sono un insieme confuso di immagini e codici binari scissi da ogni tipo di sequenza temporale. Il tempo che si passa sullo schermo è, a conti fatti, pari a quello che si passa fuori dallo schermo: se dunque, l’arrivo dei social network ha permesso la creazione di una seconda vita, parallela a quella reale e vissuta interamente attraverso un avatar, ormai, quelle vite sono mischiate, unite in un agglomerato di pixel. Sono la bestia che ci circonda.
Seguici su Instagram, Tik Tok, Twitch e Telegram per sapere sempre cosa guardare!
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!