Martina Barone, classe 1996, è una delle più giovani e riconosciute critiche cinematografiche in Italia. Vanta infatti collaborazioni con testate come Everyeye, Esquire, The Hollywood Reporter Roma, ed è stata giurata alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Ma le sue passioni per il cinema e la critica la portano all’interno del mondo del giornalismo già a partire dei tempi del liceo. Ha frequentato Arti e Scienze dello spettacolo, sia in triennale che in magistrale, alla Sapienza di Roma. E anche se le piacerebbe insegnare, ha deciso di abbandonare la scelta «come un fulmine a ciel sereno» del dottorato per dedicarsi totalmente alla critica.
Versatile, sperimentatrice, espressiva, promotrice di un’informazione totale, la sua attività critica e divulgativa non si ferma alla carta, stampata e non, ma ha un approccio diretto con lo spettatore: nuovi media, Instagram, TikTok, reel. A NPC magazine ha detto che la critica è «uno scambio di cinema, con chi lo vorrà fare e chi no». L’abbiamo intervistata a pochi mesi dalla sua prima esperienza come selezionatrice al Torino Film Festival.
Visto che siamo praticamente coetanei ti diamo del tu…
Ci mancherebbe. Mi piacerebbe che mi desse del lei (ride).
Da quanto tempo scrivi di cinema professionalmente e cosa hai studiato?
Scrivo da 9 anni (a marzo saranno 10), quindi da quando ne avevo 18. Non ho mai percepito però la differenza tra scrivere per piacere o per lavoro: quando iniziai, infatti, ero sicura che volevo che fosse la mia strada. Ovviamente, a un certo punto mi è stato più chiaro che qualcosa si stava muovendo, tra opportunità, incontri e festival. Tasselli che sono arrivati uno dopo l’altro. Poi a 18/19 anni, con l’incoscienza di quest’età, mi son sentita pronta a fare il grande balzo. Una beata incoscienza che, devo dire ora non ho più, adesso mi faccio molti più dubbi. Truffaut diceva che nessun bambino nasce con il sogno di fare il critico, eppure a 15 anni già sapevo che quella era la mia aspirazione…
Quando iniziai a scrivere di cinema a 18 anni, ero già sicura che fosse la mia strada.
L’eccezione alla regola insomma.
Non mi sento di dire di essere l’eccezione, però era comunque molto presto. Avevo già capito che il cinema per me era l’ambito di cui volevo occuparmi, sebbene non avessi mai voluto farlo effettivamente. Non volevo scrivere sceneggiature o fare il cinema (al massimo avrei voluto fare la montatrice). Sono sempre partita col voler fare la critica, cosa che ha permesso di orientarmi da subito nella scelta del mio indirizzo di studi all’università.
Quanto è importante stare a Roma per una critica e per una giornalista?
È stato importante soprattutto all’inizio. Considera che le mie prime anteprime le ho fatte mentre frequentavo ancora il liceo. Era ovvio che stando a Roma avevo questo privilegio di andare a proiezioni per la stampa e partecipare in prima persona alle interviste. Crescendo mi sono resa conto però che la figura del critico non ha più – almeno attualmente (o forse non c’è mai stato) – la necessità di un luogo. Sai, quando si è giovanissimi c’è l’ansia di perdersi i momenti più attesi e di “non stare più sul pezzo”; poi, sempre crescendo, questa sensazione si affievolisce e ti rendi conto che l’articolo che aspetti non è mai quello che esce prima. È importante quindi stare a Roma (come anche stare a Milano in realtà), ma non è tanto il posto che poi ti permette di avere una visione più pronta su un prodotto cinematografico. Detto ciò, ora faccio l’ipocrita… perché non mi sposterei mai da Roma! La amo quanto la odio. È un ambiente culturale che prescinde dalle anteprime e dai set. Puoi fare tante cose e partecipare a tanti eventi, e questo fa parte di una crescita naturale che sicuramente ha contribuito, e continua a farlo, nella mia formazione, nei miei interessi e nella possibilità di incontrare persone.
La critica crea un ponte con chi ti legge. L’autorevolezza di un critico non arriverebbe se si scrivesse solo per sé stessi.
Sangiorgio ha spiegato come un critico si debba costruire una sua autorevolezza, anche nel modo di emergere. Cosa ne pensi a riguardo? Come hai costruito la tua?
È qualcosa a cui ambisco, e anche se oggi ci ho messo tanto ad autoidentificarmi come critica (la tessera del Sindacato Critici presa qualche tempo fa me lo fa dire con più sicurezza), ho ancora difficoltà ad accettarlo. Credo che ci siano due modi di vederla, uno concerne la sfera pubblica: penso che un critico diventi tale nel momento in cui anche gli altri ne riconoscono un certo seguito; che non prescinde dal fatto di dover esser popolare ed essere molto seguito (sui social o da qualche altra parte), bensì che gli altri lo riconoscano in quanto critico. Molto spesso vediamo critici che si autodefiniscono come tali, e poi magari di lavoro di critica ce n’è poco. Per questo mi metto continuamente in discussione, perché nonostante abbia cominciato molto presto mi rendo conto che bisogna continuare a imparare, e che, a 28 anni, è ancora difficile dire: “ho l’autorevolezza di…”
Questo non per colpa della critica in sé o dell’ambiente, ma piuttosto perché siamo in un paese in cui a 28 anni siamo ancora considerati molto giovani. Quindi da una parte ci deve essere il sostegno da parte dei tuoi colleghi e dei lettori, e come in un gioco di specchi, tu ti guardi in loro e così un po’ riconosci una certa autorevolezza. Negli anni, infatti, non ho mai detto di essere una critica, a volte dico solo che scrivo di cinema…
Dall’altra parte creare un’autorevolezza significa tracciare un percorso personale: lavorare su di sé, sul proprio lavoro, sul farlo bene. Tutte cose che penso possano essere possibili in base all’onestà con cui lo si fa. Perché più che la paura di non essere considerati, di non essere abbastanza intelligenti, di non saperne abbastanza, bisogna esser onesti con il proprio lavoro, coerenti con il proprio modo di lavorare ed esprimersi. Ora, è altrettanto importante essere un ponte con gli altri. Non si dovrebbe parlare di cinema e scrivere di cinema con sé stessi, per avere l’arroganza di farlo come puro esercizio di stile. Secondo me l’autorevolezza arriva quando, con i tuoi modi di fare, riesci a creare un ponte con chi ti legge, con chi incontri, con chi intervisti ad un festival. Insomma, è fondamentale creare un rapporto onesto e frontale con chiunque, colleghi, registi, operatori e soprattutto lettori.
Lo dicono in tanti questa cosa di non scrivere per sé stessi…
A me lo hanno insegnato. Non devi essere bravo perché i tuoi colleghi devono pensare che tu sia bravo, bensì devi fare in modo che gli altri comprendano quello che vuoi dire su quel film o su quel libro. Sembra una cosa scontata, ma quando ti butti nella scrittura, poi, spesso arriva automaticamente quella sensazione di voler dimostrare di saper dire di più e di essere tra i più bravi a dirlo. Ma non è questo lo scopo del nostro lavoro. Anzi, fare critica è bello perché è il responso che un’opera può avere sul pubblico, e analizzare qual è stato l’impatto e perché.
Quanto sono importanti le fonti nel nostro lavoro?
Giornalisticamente parlando, molto. Ma altrettanto importante è sapere dove si possono cercare. Poi (per ritornare al discorso sull’importanza di vivere a Roma) è ovvio che se fai parte di un determinato circolo o ambiente è più facile arrivarci rispetto ad altri.
I social? Sono un’opportunità, ma sta alla responsabilità del fruitore cercare le proprie figure di riferimento. Purtroppo i content creator che parlano di cinema, oggi, sono troppi, e portano tutti contenuti molto simili tra loro, creando impoverimento.
Che direzione pensi debba prendere il dialogo tra social e critica? Ilaria Feole su NPC Magazine ha dichiarato che la critica sui social è «Un’occasione persa. Un luogo ottuso dove nessuno si ascolta». Cosa ne pensi?
Bisogna premettere che è cambiato tutto molto e troppo velocemente. Per dire: in triennale feci una tesi sulla figura del critico e sui nuovi mezzi di comunicazione, e in quegli anni Youtube era il social principale. In magistrale tornai sull’argomento, e dovetti concentrarmi in particolare sulla figura del critico/influencer e il rapporto con i social (che nel frattempo aumentarono). Ebbene, mi sono laureata circa 4 anni fa, eppure già rispetto ad allora questo rapporto oggi è cambiato, e con esso il mio modo di concepirlo.
In quel momento – c’è da dire che forse ero più positiva anche io – pensavo che fossero effettivamente finestre per il pubblico, un modo più diretto per arrivarci almeno. Oggi invece si trovano più di video e contenuti molto simili tra loro, con persone che inseguono lo stesso formato e lo stesso target. Questo determina una sorta di impoverimento del dibattito sui social. Oggi, infatti, penso che bisogna saper cercare le figure critiche e giornalistiche che interessano. Avere più accortezza nel dividere il content creator dal critico. Capire che sono due entità ben distinte, e che possono a volte convergere. Semplicemente cercare la fonte che si preferisce.
Io mi sono dilettata in tutto: reel, post, tiktok, video, e sono convinta che possa essere tuttora un’opportunità. Penso però che la responsabilità sta più in chi vuole informarsi e di coloro che si addentrano nei meandri dei social. Quindi è vero, ci sono i creator che lo fanno solo per far sentire la propria voce o veder ripostato qualche contenuto; però è altrettanto vero (a proposito di autorevolezza) che bisogna avere onestà quando si utilizza un mezzo di comunicazione. In breve: che sia sul web o che sia sulla carta, i critici che vuoi seguire li scegli te.
Tu usi molto Letterboxd per esempio.
Mi piace un sacco! Lo vedo come un aggregatore, un metro di misura ed è soprattutto divertente da usare. L’unico problema forse è che non c’è una distinzione tra il professionista e il “dilettante”: la situazione è più torbida e per i neofiti soprattutto è più facile confondersi. Infatti, personalmente lo uso come se fosse un gioco.
Si è conclusa anche questa edizione di Venezia, come hai accolto la novità delle Serie TV? Per il Lido si sentivano solo critiche e commenti allarmisti.
Non trovo che il problema sia tra cosa sia il cinema e cosa sia la serialità, e non trovo neanche che sia una questione autoriale. Fondamentalmente è questione di tempo: sette, otto ore di prodotto corrispondono a due film… Capisco che anche le Serie TV sono diventati titoli imperdibili, e fruirli al cinema ha il suo fascino (vaglielo a raccontare a quelli che non sono riusciti a godersi M sul grande schermo). La paura della serialità è quindi rivolta al tempo che ti porta via. Non c’è banalmente il modo di recuperarle tutte, soprattutto per chi ci deve lavorare e nel frattempo deve vedere anche i film. Va detto che Serie come M sai che arriveranno sulle piattaforme prima o poi; invece ai festival ci sono film che non escono mai dal circolo festivaliero, e lì quindi sale il dubbio. Secondo me bisognerebbe trovare una via di mezzo, per facilitare la vita un po’ a tutti.
Quali sono i registi emergenti che ti interessano di più?
Emma Seligman (che tra l’altro ho intervistato), ha uno sguardo irriverente, attento, arguto e preparato, il tutto mescolato con un’ironia molto pungente. Non vedo l’ora di conoscere il suo prossimo lavoro, è semplicemente un’autrice della quale non riesco a fare a meno. Per me il suo cinema è come confrontarmi con qualcuno che sta vivendo e osservando la sua epoca. Poi, anche se affermati, direi Ari Aster o Damien Chazelle, soprattutto perché sono giovani autori con grandi storie. Del nostro panorama direi i Fratelli D’Innocenzo (perché no?): mi sono piaciuti fin dalla prima ora, e, a differenza di molti, mi piace anche America Latina. Aggiungo inoltre Coralie Fargeat e Julia Ducournau. Le nomino perché è interessante vedere come, con The Substance (in sala dal 30 ottobre 2024, ndr) e Titane, uno sguardo femminile si stia facendo sempre più strada, soprattutto in territori che per tanto tempo sono stati dominati da figure maschili.
Un tuo guilty pleasure cinematografico?
Ho due generi a cui sono molto legata. In realtà non li ritengo essere dei guilty pleasure, quindi sto un po’ barando. Mi riferisco alle commedie demenziali e alle rom-com. Nel primo caso, penso che non ci sia niente di più difficile dello scrivere le commedie demenziali. Devi essere molto intelligente, avere una certa arguzia e un certo brio. Per quanto riguarda il secondo caso, penso che un cinefilo che non ritiene importanti le rom-com è assolutamente poco interessante.
3 libri sul cinema (e non per forza di cinema) che consigli?
Parto con Elogio alla critica di A.O. Scott (Il Saggiatore, 2017, 255 pp.), che ha cambiato il mio modo di approcciarmi alla critica. Lo lessi diverso tempo fa e cambiò radicalmente l’impostazione del mio lavoro, e il modo in cui credevo di doverla fare. Leggendo Elogio alla critica ho iniziato a vedere la figura del critico come quella del tuo migliore amico, a cui ci si affida e che ovviamente ha i suoi gusti e li pone nel momento di un giudizio. Continuo con il volume di Kenneth Anger, Hollywood babilonia (Adelphi, 2021, 437 pp.), dimostra che le cose più divertenti sono anche le più torbide. Non lo riterrei il mio libro preferito sulla storia del cinema, però all’interno trovi tutti quei retroscena che scovi dietro la patina d’oro di Hollywood, i peggio retroscena che puoi intuire ma non sapere. Infine, direi Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne di Jude Ellison Sady Doyle (Tlon, 2021, 304 pp.), mi sta influenzando molto di recente. Si tratta in fondo di un testo che pone l’attenzione sui prodotti contemporanei, mantenendo l’occhio sui classici, e con ragionamenti che mi hanno stimolato e mi stimolano continuamente.
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