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copertina intervista anton giulio mancino per NPC Magazine

Chiacchiere con il critico: NPC intervista Anton Giulio Mancino

24 minuti di lettura

Anton Giulio Mancino (Bari, 1968), è critico cinematografico, saggista e professore di cinema all’Università di Macerata. Instancabile e continuo ricercatore, dal 2001 al 2004 e dal 2009 al 2012 è stato selezionatore della Settimana Internazionale della Critica della Mostra del Cinema di Venezia. Dal 2021 cura e conduce il Seminario residenziale estivo di Critica Cinematografica del Bobbio Film Festival.

Come critico, Mancino ha scritto e scrive per numerose riviste e quotidiani italiani, come la pagina della Cultura della Gazzetta del Mezzogiorno, sul settimanale Film TV e numerose riviste specializzate, come Bianco e Nero, Cineforum, Cinecritica, Close up, Quaderni del CSCI, Fata Morgana, La Valle dell’Eden, Imago.

I suoi più corposi contributi riguardano principalmente il cinema italiano e americano, i generi cinematografici (in particolare quello carcerario, il noir, il melodramma e il cinema politico statunitense e soprattutto italiano) in particolare si è molto dedicato all’ambito da lui stesso definito politico-indiziario ed ai rapporti del cinema con la storia, la letteratura, il teatro ed il diritto.

Intervista a Anton Giulio Mancino

Anton Giulio Mancino premiato all'Efebo d'oro Film Festival 2024 di Palermo.

NPC: Da quanto tempo scrivi professionalmente di cinema?

Mancino: Bella domanda… mi guadagno da vivere facendo il docente universitario, in particolare come professore associato, all’università di Macerata, cosa che faccio da quando avevo 40 anni. Faccio il critico da quando ne avevo circa 20. Ho scritto libri di cinema su svariati argomenti: tra quelli a cui tengo di più, c’è il primo che scrissi su Martin Scorsese e Jonathan Demme, con la prefazione dell’adoratissimo e compianto Roger Corman, colui che fece esordire entrambi i registi (Angeli selvaggi – Martin Scorsese, Jonathan Demme, Métis, 1995). Ho dei ricordi leggendari su quel libro.

Poi mi piace la parte del libro che ho scritto su Francesco Rosi, libro di cui la seconda parte è fatta da Sandro Zambetti, ex direttore di Cineforum; un vero uomo, in senso sciasciano, veramente energica, una delle persone che ammiro di più: lui ti mandava a quel paese con una durezza che neanche Clint Eastwood (Francesco Rosi, Il Castoro, 1977). Questo libro fu possibile perché Rosi mi venne presentato da Gabriel Garcia Marquez sul ponte dei Sospiri di Venezia a mezzanotte. Tutto vero. Io, ovviamente, a vent’anni avevo voglia di intervistare Rosi sul ponte dei Sospiri; forse non era il caso visto l’orario, ma all’epoca non mi fermava nulla e nessuno, ero completamente senza regole.

Sono legato poi al libro su John Wayne perché era una sfida. Lui era l’icona di un immaginario bellico e guerrafondaio che, invece, studiando a fondo, ho scoperto essere una vulgata con molte contraddizioni (John Wayne, Gremese, 1998). Mi sono poi concentrato sul cinema politico-indiziario, concetto che ho sparpagliato in 3 libri cercando di definirlo. In realtà poi, il termine politico-indiziario, che io intendo rosaniamente, oggi è entrato nel gergo, molti lo utilizzano senza sapere bene cos’è, declinandolo in una maniera pop.

Mi piace anche la biografia su Pino Donaggio (Come sinfonia, Baldini+Castoldi, 2021), che ho scritto a quattro mani con lui [con la prefazione di Terence Hill, ndr] e che ho approcciato da scarso conoscitore (quale sono) di musica. Io dissi a Pino che non capisco nulla di musica, lui precisò: «Non ti preoccupare, ne capisco io». Sono orgoglioso di averlo scritto stando dall’esterno perché, secondo me, così ho colto un certo lato poetico.

Poi l’ultimo libro che ho scritto ha vinto al festival Efebo d’Oro come miglior opera saggistica sul cinema, ovvero Pagine girate. Nuovo cinema Pirandello (Kaplan, 2023). Al suo interno vi è il concetto di disadattamento – che spero aiuti molti a capire cos’è veramente un film tratto da un’opera letteraria.

Infine, altro testo a cui tengo molto, è il libro su Bellocchio ed il caso Moro (La recita della storia – Il caso Moro nel cinema di Bellocchio, Bietti, 2014). Il libro mi ha permesso di conoscere più da vicino Bellocchio, con il quale ora ho un ottimo rapporto e da cui è nata l’esperienza del corso di Critica a Bobbio. Quest’ultima è un’esperienza che definirei umana, sento di interloquire con delle persone e non con dei robot critici istigati alla crudeltà. Un modo, insomma, per “bonificare il terreno”.

NPC: La realtà diventa sempre più simile alla rappresentazione, le due cose sembrano quasi fondersi. Il cinema come si pone con l’attualità? Che problemi si incorrono nel rappresentare la realtà odierna? Abbiamo pensato questa domanda pensando ai tuoi studi su come il cinema si rapporta alla realtà storica.

Mancino: Io penso che ci siano degli esempi positivi, che sono la minoranza, ed una quantità maggioritaria di esempi negativi. Il compito del critico è capire i film per quello che sono, non per quello che vorremmo che fossero. In merito alla relazione con la storia, intesa come presa di petto, abbiamo esempi importanti come Il caso Goldman e The Apprentice, che hanno ancora una capacità di essere precisi, di “non mandartela a dire”. C’è un cinema intelligente, che lotta insieme a noi.

Dispiace, però, che molti film di questo tipo vengano da registi che hanno superato l’ottantina. Prendiamo per esempio Giurato numero 2 di Clint Eastwood o The Old Oak di Ken Loach. Temo che ci sia una paura pazzesca nell’affrontare la realtà. Lo stesso Civil War, mi sembra un film pornografico sulla guerra, anche volendolo paragonare a La seconda guerra civile americana di Joe Dante, comprendiamo quanto in realtà sia incapace di spiegarci, vuole solo mostrare pornograficamente la guerra e il dolore.

La stessa cosa vale per Oppenheimer, che in tre ore non riesce a trovare qualche minuto di tempo per ricordare le conseguenze della bomba atomica sui giapponesi; un film depistante e con aspetti meno rilevanti della questione morale di fondo. Un cinema che potrebbe fare, anche realizzato da registi che il talento ce l’hanno: Nolan è un grandissimo regista, non grande ma grandissimo, al servizio della forma peggiore.

Certo, se andiamo indietro con i decenni, sempre con il dovere di capire il contemporaneo, abbiamo avuto film che hanno fatto Storia. Come ricordavate, a me piacciono in particolare i film che la storia la fanno, non che la riflettono; cioè, che sono attivi sul piano della conoscenza diretta, anche di prima mano, della Storia, in grado di modificare il corso degli eventi storici.

È quello che sarebbe potuto essere La terra trema se Luchino Visconti avesse realizzato il film come immaginava, ovvero con la terra che letteralmente tremava perché occupata dai contadini, invece questo effetto tellurico non è presente nel film. Resta un grandissimo capolavoro, con il quale Visconti ha tentato la mossa estrema e definitiva del neorealismo. E tuttavia, l’autore non riuscì a fare nella forma che voleva (che avrebbe compreso tre episodi, i quali si sarebbero conclusi con l’occupazione delle terre, la strage da parte della mafia con Portella della Ginestra del 1947). Diciamo che nel ’48 raccontare una storia così non era semplice.

Ma anche Francesco Rosi, che con Salvatore Giuliano ha contribuito alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul noto terrorista italiano. Parliamo comunque di film esteticamente compenetrati con la materia, non di film meramente ritenuti importanti per il contenuto della storia.

Marco Bellocchio ha creato, con Buongiorno, notte ed Esterno notte, dei dispositivi di conoscenza sul caso Moro, che, quando (forse un giorno tra duecento anni, chi lo sa) qualcuno tirerà fuori la verità (e non quella semplicemente televisiva d’effetto), capiremo che era già tutto dentro in questi rebus bellocchiani.

Perché poi l’artista ha il compito di esprimersi anche in maniera criptica; del resto di questi tempi c’è sempre il rischio che se scopri qualcosa di molto rilevante ti invitino ad una trasmissione, quelle che Battiato disprezzava chiamandole Tribune Elettorali.

NPC: Proprio a proposito di Esterno Notte, perché una serie tv come questa funziona e un film come Napoleon no?

Mancino: Non sono d’accordo. Chiaramente, se mi chiedeste quale preferisco tra le due risponderei Esterno Notte. Per tutta una serie di motivi, tra cui il cast: penso che la scelta di un Moro così identico non segua soltanto il criterio di una copia conforme al volto. Fabrizio Gifuni è Aldo Moro: non gli somiglia soltanto, è proprio lui. Nel senso che, se la serie potesse agire come una macchina del tempo, salverebbe Moro attraverso il personaggio di Gifuni.

Vi è poi la punta di estrema di genialità bellocchiana con il personaggio di Cossiga, interpretato da Fausto Russo Alesi, un attore grande rivelazione di questi anni, sia del cinema e del teatro. Chiunque riesca ancora a vedere a Bergamo le repliche dell’Arte della Commedia si rende conto del campanello d’allarme suonato da questo spettacolo, mutuato da Eduardo De Filippo ma con una regia di Fausto meravigliosa, geniale, innovativa e moderna (non contemporanea: il moderno è sempre innovativo, il contemporaneo invecchia con il tempo).

Napoleon, invece, è un film che Ridley Scott realizza (a 86 anni!), pur ossequiando le regole del film storico d’azione, come se il suo fosse un brand. Napoleon ha un senso dolente della Storia. Non è un film dal quale si esce dalla sala con soddisfazione, è anzi molto negativo. Non mi sorprende che non sia andato bene. In uno show che doveva piacere per gli indiscutibili valori spettacolari, Ridley Scott è riuscito a mettere tanta di quella negatività che vale più del successo. Successo che poi, come ricordava Carmelo Bene, è il participio passato di succedere.

NPC: Con Martina Barone abbiamo parlato di un argomento che ritorna spesso nelle nostre interviste, riassumibile in “Non scrivere per te stesso, la critica è un ponte verso gli altri, il pubblico.” come disse la stessa Barone. Cosa ne pensi?

Mancino: Mah, in realtà andrebbe anche bene se i critici scrivessero per se stessi; se, quell’essere per se stessi portasse ad un’entità collettiva. Cioè, se fossero persone che vivessero nel mondo, scrivendo per se stessi l’effetto sarebbe allargato. Il problema è che molto spesso (e mi spiace, vorrei costituirmi parte civile, ma, essendo critico anche io, non posso) questo egoismo dell’esser critici ha generato un chiudersi nel proprio piacere, e la dimostrazione è sotto gli occhi di tutti.

Chiudersi nel proprio piacere di vedere film ha fatto sì che la categoria dei critici scomparisse, o si rendesse ridicola, rappresentandosi in una forma grottesca (come fanno Ciprì e Maresco in Come inguaiamo il cinema italiano). I critici diventano quella roba lì, ma per colpa dei critici stessi. Sia chiaro, non assolverei gli autori da tutto questo, anche loro spesso si comportano egoisticamente: o parli bene di loro o non ti stanno neanche ad ascoltare, pensando che non sei aperto di vedute.

Io penso, però, che esista una dimensione intermedia ricoperta, in teoria, dalla figura del critico. Una produzione di dialogo e lettura, di interpretazione più che di giudizio, in cui si comprende il film, come ho detto prima, per quello che è e non per quello che vorremmo che fosse, ma anche si spiegasse il film come persone che vivono in una collettività.

Il film va anche letto oltre le intenzioni dichiarate dell’autore, magari siamo anche in grado di spiegarlo agli autori, grazie ad un’angolazione esterna.

È un po’ come il discorso che facevo prima: se non capisco di musica, forse posso scrivere una biografia del musicista con il musicista stesso. È forse più giusto, non per ignoranza ma per distacco. Ovviamente, così facendo, ci si carica di una grande responsabilità; ma il critico è quella figura che deve avere una responsabilità di quantità conoscitive enorme, però fungendo da persona che dialoga e che crea mediazione. Oserei dire che si crea un’opera d’arte parallela, cioè un’opera ermeneutica che abbia le stesse caratteristiche dell’opera d’arte.

L’esempio che faccio, enorme e certamente importante, è quello della Cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda introdotta da Gianfranco Contini. Se uno legge Contini prima e Gadda dopo, beh… se la battono. Altro esempio è Eugenio Montale che legge il primo canto di Dante: non è un critico in accezione triste.

Il critico, ha compiti di scrittura, questa deve essere intelligente, deve fornire delle chiavi di lettura importanti e originali, deve saper comunicare con un vasto pubblico. Quest’ultimo non è stupido: bisogna saper utilizzare il linguaggio e non star lì a difendere i privilegi di categoria. Ci sono critici che raccontano di come hanno visto quel tale film in un tale festival prima degli altri, ecc. Chissenefrega! Spesso un film arriva ad un festival, tutti hanno fretta di parlarne (male, nel senso frettolosamente), e poi il film non viene più studiato.

NPC: Invece, cosa diresti della condizione della critica attuale, dove si scrive di più ma si legge di meno? Una delle cose che più volte è uscita è che, soprattutto tra i giovani, non si legge nulla.

Mancino: Quello che manca nella critica attuale è un deficit di vita e di vissuto. Io ai ragazzi del corso di critica dico sempre: «Abbiate esperienze di vita, che sia servizio sociale, volontariato o qualsiasi cosa. Vivete, uscite di casa!». Ma non voglio essere negativo in principio, soprattutto nei confronti della scrittura di tanti giovani di oggi. Noi sulla rivista Cinecritica abbiamo pubblicato anche molti saggi di giovani; noto che c’è molta vitalità in questa scrittura non ancora professionalizzata, e che forse non lo sarà mai.

La verità è che (e può essere un difetto di fabbrica) gira una certa ingenuità nel riprodurre i discorsi critici, che hanno il vizio di usare il “critichese”, un linguaggio già reso insostenibile da chi l’ha brevettato.

NPC: Come dialogano la critica e la ricerca accademica? Sono due mondi distinti o c’è un rapporto?

Mancino: Fanno finta di dialogare, ma non dialogano. La situazione attuale è un po’ questa: il critico dice che non gli piacciono gli accademici; l’accademico, invece, vede il critico come fumo negli occhi. Io (sia critico che accademico) vorrei farli dialogare, ma mi rendo conto che, passando con il tempo, le due cose in me si stanno fondendo come nella Mosca. Cronenberghiamente parlando, son tutte e due le cose insieme, oramai la mosca si è fusa con il mammifero e quindi ho problemi in tutti i due gli ambiti. Penso che dovrebbero dialogare, ma non avviene.

Ma qual è la grande lezione dall’accademia? Non giudicare, studia, fai sempre in modo che un discorso sia scientifico, che abbia delle fondamenta e delle fonti. Il discorso critico, invece, ha una libertà e un’agilità che l’accademia ancora rifiuta.

Se in accademia un tuo libro è definito divulgativo, sembra l’opinione peggiore possibile. Sembra che un discorso scientifico, in quanto tale, non debba essere divulgativo. La critica invece lo è troppo, ma alle volte in maniera clownesca.

NPC: Qual è un tuo guilty pleasure cinematografico? 

Mancino: C’è un film in particolare, ricordo che mi traumatizzò quando lo vidi negli anni ’80: Luca il contrabbandiere di Lucio Fulci. Ormai, qualsiasi film di Fulci è stato rivalutato, ma al tempo non era così. Lui è stato un grande visionario del cinema, non solo nei film fantastici ma anche in quelli con Franchi e Ingrassia. Era un vero e proprio “terrorista di generi”.

Ecco, Luca il contrabbandiere meno, è veramente un film inquietante: un horror che racconta a Napoli la camorra dal punto di vista della camorra stessa. È proprio un film camorrista dentro, non saprei come altro definirlo se non osceno. Ma la cosa meravigliosa del film è che è stato prodotto dalla camorra stessa. Lucio Fulci è così bizzarro ed intelligente da inserire nei produttori una CMR Cinematografica che tutti gli studi hanno appurato non essere mai esistita, lui ha semplicemente preso le consonanti della parola camorra. Un film, insomma, che non ha nessun requisito per salvarsi, eppure lo trovo geniale.

Poi, per riposarmi, scelgo sempre un poliziesco, un giallo o un horror. Sono generi che mi rilassano perché mi allontanano dal mondo reale. Francesco Casetti, nel suo Schermare le paure (Bompiani, 2023) spiegava come l’horror crei una bolla orrorifica: mostra l’orrore, ma con una forma protetta e sicura. Sono molto d’accordo con questo, trovo che siano film che mi fanno capire le brutture del mondo, ma stando al sicuro.

Il giallo, invece, ti da l’idea che ci sia una verità, l’illusione che si possa arrivare a trovarla anche quando questa è insabbiata, che la si possa intuire. Anche per questo mi piace il cinema politico-indiziario, un ambito che non è né un genere né un filone, ma più una modalità euristica, un metodo che può essere trasversale ai generi.

Esso fa capire al pubblico come, ipoteticamente, potrebbero essere andate le cose, senza processare nessuno, ma presupponendo uno spettatore intelligente, quale è lo spettatore, se lo consideri tale reagirà con intelligenza; se, invece, solletichi solo i bassi istinti, ti seguirà su quello. Sono film, in breve, che ti fanno percepire il mondo ad una distanza di sicurezza che non oscura.

NPC: 3 libri che consigli sul cinema e che non siano per forza saggi di cinema?

Mancino: I quaderni di Serafino Gubbio operatore, di Pirandello (1° ed. 1916 dal titolo Si gira…). Il cinema secondo Hichcock di François Truffaut (Il saggiatore, 2014). E ne dico altri due: Il cinema gangsteristico americano. Sogni e vicoli ciechi di Jack Shadoian (edizioni Dedalo, 1984), e Dean & me (una storia d’amore) di Jerry Lewis e James Kaplan (Sagoma, 2010).


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Del tipo faccio cose, guardo film, ascolto musica, e via così. Potrei elencare tutto ciò ma dico che son di Lodi e per qualche motivo ne vado fiero, forse ironicamente. Similmente orgoglioso di sapere tutte le battute dei Griffin a memoria. Mangio e consumo di tutto ma ho comunque la camera con troppa roba, è che un po' di caos ci vuole. Tutto sommato però non nuoto male, comunque son del 2001.

Studente alla Statale di Milano ma cresciuto e formato a Lecco. Il suo luogo preferito è il Monte Resegone anche se non ci è mai andato. Ama i luoghi freddi e odia quelli caldi, ama però le persone calde e odia quelle fredde. Ripete almeno due volte al giorno "questo *inserire film* è la morte del cinema". Studia comunicazione ma in fondo sa che era meglio ingegneria.

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