Il cinema, a differenza della politica, ha bisogno di uomini forti. Un forte protagonista, un impavido eroe, un iconico antagonista, servono la narrazione nell’accalappiare il pubblico: per questo ogni tanto, sull’uscio della Storia, e della cultura poi, fanno capolino uomini cosiddetti “larger than life;” nella maggior parte dei casi si rivelano essere un toccasana per la finzione e una disgrazia per il mondo reale. Basti pensare all’inedita serie di Joe Wright dedicata a Benito Mussolini M – Il Figlio del Secolo, e al fascino che la perversa e complessa psiche del dittatore può esercitare su noi spettatori.
Lo stesso vale per The Apprentice, ultimo sorprendete lavoro di Ali Abbasi: se noi italiani abbiamo dedicato una ricchissima e ispirata filmografia -sempre critica per fortuna- a un magnate reinventatosi politico come Silvio Berlusconi, ora è arrivato il momento per l’industria cinematografica americana di confrontarsi con Donald Trump. Solo negli ultimi 6 anni sono usciti almeno tre progetti d’alto profilo che riflettono sulla nuova identità sociale e culturale dell’America post-Trump: Civil War (2023) di Alex Garland, Fahrenheit 11/9 (2018) di Micheal Moore, e il primo capitolo di Joker (2019).
Ciò che più contraddistingue The Apprentice in questo sottobosco culturale è l’intento di trasformare in finzione la realtà, normalmente affrontata tramite documentario o ignorata in favore della metafore fantascientifiche. The Apprentice racconta i primi anni di Donald Trump rimanendo fedele ai fatti ma senza rinunciare alla libertà poetica dell’autore e alla sua capacità di risignificare simboli e immagini tramite il montaggio e la macchina da presa.
The Apprentice: Everyone’s a Winner, Baby
Ali Abbasi vuole dipingere il Trump delle origini, quello che prima di essere presidente era tycoon immobiliare, figlio di un imprenditore di pessima fama e apprendista del più spietato avvocato del dopoguerra americano, Roy Cohn; qualcuno potrebbe ricordare la figura di Cohn dalla miniserie Angels in America (2003), dove era interpretato da Al Pacino: sia lì che in The Apprentice, vengono esplorate la sua bruciante passione per la “giustizia”, perseguibile con qualsiasi mezzo amorale che gli consenta di imporla, e la sua omosessualità repressa sfociata nell’AIDS. Per Abbasi, Cohn è assolutamente centrale: è colui che ha modellato Trump a sua immagine e somiglianza.
Dal 1973 al 1985 è stato avvocato personale di Trump, consigliandogli come muoversi negli affari e nelle numerose aule di tribunali nelle quali era imputato: citando le parole di Abbasi, “Roy Cohn è il Viktor Frankenstein che ha creato il mostro Donald Trump“. Effettivamente il paragone non solo rende bene l’idea, ma è rafforzato dalla presenza di alcune immagini estremamente reminiscenti dell’immaginario di Mary Shelley e dell’originale adattamento per lo schermo del 1931: dopo la “nascita” del mostro Trump, Donald si sottopone a un intervento per perdere peso e curare la calvizie, steso su di un lettino medico, con un dottore intento a tagliargli le carni e ad aprirgli il cranio.
Se la dinamica Cohn/Trump è proprio quella del creatore/creatura, non va ignorata nemmeno l’influenza che The Master (2012), di P.T. Anderson, ha esercitato su Abbasi: incentrato sul potere e sui rapporti che esso regola, girato con la stessa energia febbrile e concitata di The Apprentice, anche lì assistiamo a come gli studenti finiscano inevitabilmente per vendicarsi dei maestri.
E ancora è evidente come Abbasi citi i grandi venuti prima di lui traendo ispirazione direttamente da uno dei capolavori immortali di Stanley Kubrick, Barry Lyndon (1975): The Apprentice non solo segue la stessa parabola di ascesa e declino (omettendo volutamente quest’ultimo) del tracotante self-made man Kubrickiano, ma utilizza alcune delle stesse trovate stilistiche, prima fra tutte l’illuminazione soffusa e naturalistica con la quale veniva incorniciata l’ipocrita società inglese settecentesca.
Le 95 regole di Ali Abbasi
La regia sommessa e spietata di The Apprentice non trova riscontro solo in Kubrick: il film è quasi interamente composto da immagini tremolanti e zoom improvvisi, come se a riprendere fosse una piccola videocamera in mano a qualcuno presente nella stanza con i personaggi. La fotografia è sbavata, ottusamente cruda, piena di sfarfallamenti e imperfezioni tecniche; il risultato è un’atmosfera malsana, crepuscolare, nella quale nessun individuo viene mai “immortalato” ma semplicemente ripreso senza nessuna forma di estetizzazione.
Le caratteristiche di The Apprentice ben ricordano lo stile del Dogma 95, movimento cinematografico nato in Danimarca nel 1995 e reso famoso da Lars von Trier e Thomas Vinterberg, fondato sul ripudio degli strumenti classici del cinema: usare solo videocamere a mano, nessun tipo di illuminazione artificiale, suono in presa diretta, movimenti di macchina erratici e il minor numero di tagli possibili erano le condizioni base dalle quali partire. Il Dogma 95 ha visto partecipare al progetto vari autori di diverse nazionalità nei primi anni 2000 ed è poi andato scomparendo verso gli anni ’10.
Ali Abbasi, di origini iraniane ma naturalizzato danese, torna a utilizzare il Dogma in grande rispolvero, ripescando a piene mani gli aspetti migliori di tutti coloro che vi hanno partecipato: il montaggio forsennato di bruschi tagli e musiche a palla del primo Trier, la cupezza e il forte focus sulle interazioni umane del Vinterberg di Festen (1998), l’immaginario americano devastato e sudicio di Harmony Korine in Gummo (1997).
Raccontare una storia politica -e quindi collettiva- evidenziandone tutti gli aspetti più ruvidi e privati è senza dubbio un approccio già sperimentato in passato, ma che raramente si è rispecchiato così radicalmente nello stile registico del film.
Con The Apprentice Ali Abbasi torna ad incarnare quello stesso cinismo che aveva in passato mosso i suoi predecessori danesi, una visione del mondo oscura e priva di speranza: il Trump di Sebastian Stan -la cui eccellente performance meriterebbe un paragrafo a parte- non incontra la collera di nessun paesano e non viene cacciato con fiaccole e forconi; il mostro non muore, anzi continua ad ingigantirsi -sia fisicamente ed esteticamente che in senso metaforico- fino a perdere ogni tratto umano che potesse avere.
The Apprentice, il Trump di Sebastian Stan è il frutto sano di un albero malato
Il messaggio di Abbasi è tuttavia molto più complesso della semplice critica a Trump: vi è piuttosto una netta presa di posizione nei confronti delle intere fondamenta sulle quali si regge l’impero americano; i media, le istituzioni, l’arte stessa trovano tutte incarnazioni poco lusinghiere in The Apprentice.
Lo stesso titolo del film rimanda all’omonimo programma televisivo di cui Trump sarebbe divenuto protagonista nei primi anni 2000 e colpevole di averlo consacrato; ogni politicante o legislatore presente in The Apprentice ha un suo lato oscuro fatto di corruzione e ricatti; Andy Warhol fa un’apparizione come ospite di un festino di Roy Cohn, ricordandoci quanto l’arte americana, l’unica vera arte in cui l’America abbia veramente eccelso, è quella di “fare i soldi”. Vi è anche una non tanto velata condanna di come gli Stati Uniti hanno gestito -e continuano a gestire- l’epidemia di AIDS, circondata da disinformazione e stigmatizzazione.
Abbasi ha più volte ribadito che il film non influirà sui risultati delle imminenti elezioni americane, perché non contiene nulla che non sia già di dominio pubblico. Ancora più importante, Abbasi ha sottolineato a più riprese come, in quanto uomo di origini arabe, sia cresciuto guardando alle elezioni americane con indifferenza, visto che un’eventuale vittoria di Democratici o Repubblicani per lui non avrebbe segnato un cambio di regime: il Medio Oriente si sarebbe svegliato comunque con le bombe statunitensi sulla testa, analogamente a quanto ancora avviene oggi, con sia Kamala Harris che Donald Trump che legittimano lo sterminio del popolo Palestinese giurando di garantire supporto incondizionato ai suoi carnefici.
In The Apprentice, Trump non è il problema: è il sintomo di un sistema incancrenito e virulento che contagia tutto ciò che tocca, sia che si manifesti con sfoghi blu o rossi; prima di Trump c’erano Nixon, Raegan, McCarthy e Roy Cohn, dopo di lui ci sono stati Biden, Harris e Walz, e fra un mese indipendentemente da chi siederà nella casa bianca, nel mondo si continuerà a morire di America.
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