Ilaria Feole, classe 1983, nata a Milano, è una delle penne più attive di Film Tv, con il quale collabora da 15 anni. Critica esperta, eterna giovane, sempre interessata agli sguardi più recenti e a tutto ciò che attira e attiva i nuovi spettatori, scrive di cinema e serialità sulla rivista madre, dove cura le pagine dedicate ad alcune piattaforme streaming. A Venezia fa parte, da tre anni, del comitato di selezione della Settimana internazionale della Critica (SiC) alla Mostra del Cinema.
Ha scritto diverse monografie che spaziano dal cinema americano ad alto budget, come Wes Anderson – Genitori, figli e altri animali, pubblicato con Bietti nel 2014, passando per Sergio Leone, sua grande passione, (C’era una volta in America di Sergio Leone, Gremese, 2018) e Fellini (Tutto Fellini, Gremese, 2019); fino ad arrivare al nuovo cinema femminista e alle sue autrici più contemporanee (Architetture del desiderio – Il cinema di Céline Sciamma, Asterisco, 2021).
Da un paio di anni è anche docente a contratto con la Civica Scuola di Cinema “Luchino Visconti” di Milano, dove porta avanti un corso sulle Serie Tv; mentre alla Scuola Holden di Torino, insieme a Bruno Fornara, insegna Teorie e Storia del Cinema.
Da quanto scrivi professionalmente di cinema?
La mia prima esperienza con la carta stampata l’ho avuta quando ho cominciato il corso universitario di Scienze della comunicazione a 20 anni. Iniziai a scrivere su un giornale mensile locale di Mantova, La Civetta, dove ho mosso i miei primi passi, qui recensivo un film a mia scelta. Tuttavia, la mia attività di critica partii qualche anno prima, quando ero alle superiori, dove su diversi blog mi cimentavo con la scrittura. La mia prima recensione della vita è stata quella su Matrix, avevo 16 o 17 anni.
Direi che la svolta è arrivata con il master di critica cinematografica all’Università di Udine, nella sede di Gorizia, esperienza formativa fondamentale e dove, grazie alla qualità molto alta degli insegnamenti (Roy Menarini è stato uno dei miei insegnanti) e al fatto che dovevo fare uno stage obbligatorio, mi sono proposta a Film Tv.
Che consigli ai giovani critici e quali sono le materie prime che un appassionato di cinema deve avere o affinare per fare il critico, o comunque buona critica?
Di essere meno pigri. So che come consiglio suona un po’ con sufficienza, ma è una cosa che vedo tanto insegnando. Oggi noto che si tende a fermarsi a quello che arriva, solo che questo che arriva è spesso già filtrato da qualcun altro, che sia l’algoritmo, la tendenza del momento o l’urgenza e la fretta che spessissimo dominano il nostro lavoro: essere sul pezzo, coprire quella cosa, parlare prima degli altri di quella cosa ecc. Questo spesso diventa dominante rispetto al far sedimentare e tirar fuori un discorso critico di altro tipo.
Quindi banalmente un consiglio: essere più curiosi, cercare le cose, costruire dei percorsi anche astrusi, ora soprattutto che c’è la possibilità di reperire qualunque cosa online. Ci si può costruire delle galassie di scoperte molto stimolanti, è la parte migliore di questo lavoro scoprire ed appassionarsi ad un autore, ad un filone, quando inizi a unire i puntini è il momento più avvincente.
Oggi forse c’è troppa scelta. Il problema è il contrario, della troppa disponibilità:
Verissimo. Essere così sommersi di offerta senza avere una guida per fare una cernita rende più complicato orientarsi. Dal nostro punto di vista, invece, diventa quasi un obbligo recensire le cose che tutti stanno vedendo. Capita anche a me quando devo scegliere i prodotti da recensire per le pagine di Netflix e Disney+: molte serie Tv o film li avrei scansati, ma essendo di punta è giusto parlarne. Il pubblico non è scemo, se guarda le cose c’è un motivo e uno dei nostri compiti è proprio quello di capire quali sono questi motivi.
D’altro canto, un problema di oggi è che guardiamo le cose a pezzi. Per questione di tempo e stanchezza, ormai il pubblico frammenta la visione. Ma il gusto di guardare i prodotti nella sua interezza non deve essere rilegato solo alla sala cinematografica. Vedi quello che aveva fatto Netflix con The Irishman, che per invogliare alla visione aveva promosso il film comunicandolo come se fosse una miniserie. Ma The Irishman, come ogni altro film, non sono pensati per essere visti così. Il nostro spam di concentrazione sta finendo, ed è quindi molto importante, oggi più che mai, guardare le cose per intero.
Che spazio ha (se ce l’ha) la critica professionista con i nuovi media e social?
È una questione complessa. Quello tra i social e la critica è secondo me un matrimonio non del tutto riuscito in realtà. Un’occasione persa secondo me. All’epoca dell’ingenuità dei social (cioè all’inizio) sembravano davvero qualcosa che poteva replicare i forum e i centri di dibattito. Poteva essere effettivamente uno strumento di scambio e di confronto fertile (almeno, questa è la “utopia” che mi ero fatta io). Ciò non è successo, ed è diventato anzi un luogo ottuso dove nessuno si ascolta. Anzi, la critica sui social funziona tantissimo quando si dicono le cose prima e in maniera tranchant e drastica. Queste cose possono appassionare ma ciò ha poco a che fare con la critica.
D’altra parte, penso che ci siano alcune realtà che sono in grado di coniugare bene l’informazione sui social tramite l’uso di caroselli, montaggi, reel, sintesi (che è sempre un buon esercizio per i critici) e quant’altro. Un esempio buono che posso portare è quello del settimanale francese Télérama, una rivista di riferimento di Film TV, che pubblica spesso piccoli reels divulgativi, senza scadere nel format “acchiappa pubblico”. Non è però una cosa per tutti, né il lavoro per tutti i critici. Sei una penna geniale, ok, ma non è detto che sia anche portato per creare questo tipo di contenuti.
Oppure, guardando l’approccio dei giovani alla critica: non frequentano la carta stampata e non leggono recensioni, ma ho scoperto che moltissimi di loro fruiscono la critica tramite Letterboxd. Anche quello è un social su cui si sta puntando molto, dove molti critici, registi pubblicano piccole (o lunghe) recensioni. È un modo diverso di fare e fruire critica anche ben fatta, aggregare e creare liste; il Festival di Locarno, a titolo di esempio, sta avviando anche una partnership con Letterboxd.
La vedo quindi come una cosa molto fruttuosa e da sfruttare. Oramai ha preso proprio piede ed è totalmente sdoganato. Penso, invece, che ai tempi in cui Letterboxd sembrava la cosa: “da non dire a nessuno che esiste, rovina le medie dei film”. Era un tabù, non doveva esistere e non dovevi averlo.
Invece che rischi hanno i social per il critico? Per esempio, nella scorsa intervista Roy Menarini disse, a proposito del pregiudizio, anche la critica professionista è stata travolta dai social e dalle dinamiche da social, dove si preferisce commentare il giudizio di un film piuttosto che del film stesso.
A volte si rischia che il social diventi altro. Come tutti i social si tratta di costruzione di un’immagine, quello che ci ha portato nel bene e nel male è che siamo costretti a crearci un’immagine, tutti si trovano a farlo. Questo accentua tanto un problema della critica in generale, l’essere egoriferita.
Per cui si lascia da parte il film vero e proprio per parlare dei propri meriti, per esempio di come si ha scoperto questo film prima di tutti gli altri, o perché ci si lascia incantare da questo autore o una certa casa di produzione e invece non si dovrebbe. Così, invece di scambiarsi e confrontarsi, diventa un discorso a senso unico in cui si risponde alle opinioni e non più sulle cose in sé.
Questo è un rischio molto grosso, anzi una cosa che è in atto. Un po’ credo sia inevitabile, penso che sia irrazionale e istintiva; un po’ è per come sono strutturati i social, che giocano molto su questo e giocano sul personalismo e su figure carismatiche. Il vero peccato di questa faccenda è che poi si parla tutti tra di noi, ma al pubblico ed ai lettori/spettatori non gliene può fregare di chi avesse detto cosa prima. Dobbiamo parlare delle opere, di chi sono gli autori, se no diventa il circoletto dei critici che poi, molto spesso, i critici non leggono la critica. Stanno lì a farsi rivalità sui social ma non leggono riviste o libri.
Cinema femminista. Sei una grande estimatrice di giovani registe della scena autoriale/indie: Emma Seligman, Céline Sciamma, quali sono i tratti del cinema femminista odierno? C’è stato invece un cambiamento nel come il femminismo tratta la pornografia? Esempio erano comuni negli anni 70/80 istanze femministe contro il porno, oggi invece si parla di porno femminista.
Sulla prima parte preciso che parlare di cinema femminista è sempre un po’ scivoloso. Non è un’etichetta in cui tutte le autrici si riconoscono, a volte non c’è neanche la consapevolezza, o il desiderio, di fare militanza in senso femminista. Sicuramente c’è il desiderio di ribaltare alcuni paradigmi del cinema mainstream, del cinema come l’abbiamo visto per 130 anni. Ribaltare il famoso male gaze e provando a opporgli questo fantomatico female gaze, che è molto sfuggente. Non si è ancora capito se esiste, chi lo ha, se si può applicare, se ci serve.
Per me la risposta a tutte queste cose è sì, esiste il female gaze e ci serve perché è un buon modo per cambiare angolazione sul modo di guardare il mondo. Il nostro mestiere è certamente un po’ frivolo, insomma non siamo cardiochirurghi, però comunque occuparsi delle immagini è importante, una visione del cinema è una visione del mondo, ed è potentissimo il modo con cui le immagini formano il nostro modo di approcciarsi ai diversi temi. A volte si tende a essere un po’ non curanti su quale può essere il peso di 130 anni di cinema dominati da uno sguardo maschile, dal desiderio maschile, dall’appettibilità del corpo femminile. Sono quindi discorsi che è giusto fare e affrontare.
Mi sembra che alcune delle autrici di cui ci siamo occupate nella newsletter negli ultimi anni, io ed Alice Cucchetti (Singolare, femminile, la newsletter di Film Tv in cui loro due raccontano i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv) stiano provando a guardare le cose in modo diverso, filmare i corpi in maniera diversa.
Vuol dire anche prendere il cinema di genere, che è uno degli strumenti più potenti dal punto di vista politico, basti pensare all’horror: il genere in cui dopo il porno, il corpo è più centrale; di conseguenza i discorsi politici che hanno a che fare con il corpo femminile, e non solo, passano molto spesso dal cinema dell’orrore.
Basti pensare a Julia Ducournau e a quello che ha fatto con Raw e Titane, in cui prende alcuni punti cardine del cinema di genere e del cinema horror e, usandoli per portare avanti un discorso sui tabù del femminile. Raw per esempio è l’accettazione di alcuni istinti ed elementi del femminile, magari dissonanti che normalmente non si vedono sullo schermo: visto che la visione del femminile sullo schermo è proprio incasellata per non farci vedere ciò che non ci piace, che da fastidio a tutti (questo non è un discorso maschile, è la nostra società che non è abituata a guardare certe cose, per esempio la vecchiaia femminile).
The Substance, di Coralie Fargeat, premiato a Cannes con il Prix du scénario, racconta proprio di questo: è stato stroncatissimo da molti critici maschi, ma parla proprio dello stigma dell’invecchiamento del corpo femminile e di quanto siamo tutti disposti a fare carte false per non vederlo. Provare a testare un po’ i limiti, che sono sì i limiti dello schermo sia i limiti di queste scatole in cui vengono etichettati i tipi femminili, per provare a fare discorsi diversi.
In questo il cinema è potentissimo, è una cosa che me ne fa reinnamorare ogni volta, vedere come si può cambiare l’angolazione e raccontare una cosa diversa. Céline Sciamma lo fa costantemente, anche in maniera molto teorica: il Ritratto della giovane in fiamme è proprio un film sull’atto del guardare, sul come il guardare cambia le cose, come informa il modo in cui ci comportiamo e sul guardare il corpo femminile.
Sulla pornografia invece ammetto che non sono un’esperta, nel senso che non è una materia che studio. Noto che c’è da oramai parecchi anni il tentativo di fare il porno femminista, che ripensi alcuni cliché del porno classico per far vedere alcuni tipi di femminilità, alcune parti del corpo, alcune funzioni del corpo femminile che sono tagliate fuori dal corpo classico dove la donna ha una funzione molto precisa ed un’estetica iper precisa e definita.
Non sono sicurissima che il porno femminista abbia veramente una funzione liberatoria, in questo senso c’è una parabola molto bella nella serie The Deuce – La via del porno, dove il personaggio di Maggie Gyllenhaal è una prostituta che fa anche la pornoattrice, diventando poi nel tempo regista e ponendosi come obbiettivo questo di cui stiamo parlando, raccontare storie erotiche che facciano eccitare le donne, una cosa ante litteram visto che è una storia degli anni 70/80.
Però, su questo, ammetto che ci sono discorsi molto più a monte. Per esempio il desiderio femminile non è un desiderio così tanto legato all’immagine quanto lo è quello maschile, almeno così si intende tradizionalmente. Quindi: ha davvero senso creare un porno femminista quando comunque è un provocatore ottico che fa leva su un tipo di istinto che nel desiderio femminile è diverso? Non ho una risposta, penso che la cosa bella e fruttuosa è provarci, fare cose diverse nell’audiovisivo fa sempre bene, anche nella pornografia, testare i limiti delle cose già fatte sarà sempre una buona idea, indipendentemente dal risultato.
Cosa diciamo dei nuovi corpi attoriali di oggi? Timothéè Chalamet, Zendaya, Anya Taylor-Joy, Ana de Armas, Ryan Gosling. Il modo di intendere il divismo sta cambiando molto?
Oggi è difficile parlare di divismo, perché è difficile trovare un attore che porta la gente al cinema. Una volta si andava al cinema per vedere un film di Rodolfo Valentino o Robert Redford, oggigiorno non esiste quasi nessun interprete che faccia andare la gente in sala. Ma perché il pubblico oggi ha punti di riferimento diversi, come le saghe, i brand e i franchise. L’ultimo baluardo di questo “actor system” sono i film di Tom Cruise, perché ha ancora quell’aurea attoriale per il quale i film in cui c’è lui sono anche in un certo senso intesi come i suoi film.
Per tornare agli attori di oggi. Zendaya la trovo veramente il corpo attoriale del futuro, Challengers è un campo di prova per lei, che fino ad ora è rimasto legato alle saghe cinematografiche. Nonostante lei abbia idee chiarissime, non ha mai recitato, se non recentissima, in un film dove la sua figura possa essere messa in risalto. Anche uno come Timothée Chalamet, un ritorno alla cultura del divismo te lo suscita, insomma ogni volta il suo arrivo a Venezia è accolto da un’aura soprannaturale.
Questi sono tutti corpi molto androgini, vengono usati e li usano per ribaltare alcuni stereotipi di genere. Ciò è molto affascinante, parlano soprattutto alle generazioni di giovani, questi attori hanno una capacità e possibilità di scolpirsi una presenza e una fisicità diversa rispetto a quella classica. Bisogna ovviamente dire che anche quando sono arrivati i Dustin Hoffman o gli Al Pacino non erano proprio dei corpi smaglianti, ma era un altro tipo di recitazione. Il modo di costruirsi l’immagine degli attori nuovi fa riflettere per quanto poco conti la loro fisicità.
Considerando anche che molti di loro non hanno i social o li usano poco. Timothée Chalamet pubblica raramente e se lo fa è abbastanza criptico, Ryan Gosling non ha nemmeno profili all’attivo. Ecco, forse un’eccezione è proprio Zendaya, che invece si deve fare il mazzo sui social perché la gente la consideri, e quindi mi viene da pensare che le donne hanno ancora bisogno di costruirsi quest’aurea divistica. Forse è così.
L’anno scorso, a tal proposito, su Film tv (n. 18/2023) hai dedicato uno speciale al nuovo cinema irlandese e Paul Mescal, definendolo: «Un’icona di mascolinità nuova, vulnerabile ed elettrizzante, non tossica perché esposta, in tutta la sua insicurezza e problematicità, in piena luce».
Lui lo inseriamo nel novero degli attori che dicevamo prima. In fondo oggi essere un divo vuol dire avere il potere di scegliere il copione giusto (Normal People è ciò che ha lanciato Paul Mescal per esempio). Ma, e qui torniamo al discorso sociale e immagine pubblica, Mescal è riuscito a costruirsi un personaggio sul set e fuori dal set. Pensiamo al suo modo di vestire, ai suoi shorts e alla canottiera bianca, che indossa pure sui red carpet. È virile? È un simbolo di mascolinità? Secondo me, fa parte in realtà della sua non definizione dell’orientamento sessuale (Vedi Estranei).
Ha una grande sensibilità e grande plausibilità, se la porta appresso come un personaggio che non ha bisogno di etichettarsi. Potenzialmente gli dà una marcia in più rispetto ad altri attori, ed è un insieme di componenti che hanno una sua sensibilità. Su Paul Mescal c’è poi da dire che ha un suo magnetismo provocante nella macchina da presa: passa dei messaggi, delle parole, dei concetti con gestualità limitata, grazie anche al suo viso espressivo. È insomma un attore di altri tempi, ma allo stesso modo un personaggio modernissimo. Sono proprio curiosa di sapere che farà con il nuovo Gladiatore.
Recente è l’amara notizia delle dimissioni in tronco della redazione di THR, caso particolare a sé o è un classico esempio del troppo precariato nel mondo del giornalismo culturale? Tendenza della stampa generale o solo italiana?
Penso che quello che è successo a THR sia emblematico di un problema sistemico. Io racconto sempre di quando a Film TV, e la direttrice era Emanuela Martini, tra le mie idole e maestre, rispose ad una lettera. Qualcuno le scrisse come si fa a diventare un critico, lei rispose con il suo fare molto pragmatico che: “il mestiere del critico non esiste, che chiunque scriveva aveva comunque un altro mestiere”. Questo nel 96 o 97, io questa cosa la ritagliai e me la incollai al muro, per poi fare esattamente quel mestiere.
Questo lo racconto per dire come questi problemi nella critica c’erano già 30 anni fa e non vanno migliorando. In parte perché l’editoria, in generale, è andata in contro in una grande crisi (dall’aumento del prezzo della carta al diminuire di acquirenti di giornali), ci sono un sacco di questioni pesanti sul mondo della carta stampata. Poi purtroppo il lavoro culturale ha sempre addosso una serie di pregiudizi e male abitudini molto calcificate, è sempre difficile farsi pagare per il lavoro culturale, viene visto come qualcosa di poco quantificabile e poco visibile.
Quindi si finisce per essere sottopagati o non pagati per niente, spesso si vive nella convinzione che sia necessario farsi la gavetta senza essere pagati, per farsi conoscere ecc. Questi sono tutti mattoncini che per questo mestiere non dà garanzie, quindi purtroppo quando è arrivata la notizia di The Hollywood Reporter Roma non dico che me lo aspettassi, però la si accoglie con un senso tipo: “Ah ok, ancora un’altra volta. Di nuovo si finisce non pagati”.
Dice molto di come funziona questo mondo, poi il lavoro culturale non è solo critica ma è un mondo complicato, la riflessione va fatta a monte per avere risultati diversi, penso che in Italia siamo più ottusi su questo rispetto ad altri paesi europei.
Un tuo guilty pleasure cinematografico?
Tutti i film di fantascienza per famiglie degli anni ’80: Navigator, Explorers, Cocoon (anche se alcuni di questi in realtà sono di autori formidabili come Joe Dante). Tutto quel filone mezzo fantasy mezzo sci-fi, che non so neanche se definirli un guilty pleasure, sicuramente sono i miei miei comfort movie, i miei cult personali. Sono quelli i film che oggi non si fanno più, filmetti di fantascienza idioti con trame improbabili, oggi dobbiamo accontentarci di Ghostbusters ma non è la stessa cosa.
3 libri sul cinema (non per forza di cinema) che consigli?
Sono tutti libri intervista, sono i miei preferiti, alcuni cineasti sono i migliori esegeti di sé stessi. “Il cinema e l’arte del montaggio”, il mio libro preferito di sempre: lo rileggo spesso, è appassionante e divertente, ci sono un sacco di retroscena clamorosi su La Conversazione, la trilogia del Padrino: è un’intervista a Walter Murch, il montatore di Coppola e di altri cult.
Il secondo è “Conversazioni con Billy Wilder”, di Cameron Crowe, libro che ho adorato da ragazzina e che spesso rileggo dei passi, Billy Wilder e Cameron Crowe sono tra i miei registi preferiti.
Infine “C’era una volta il cinema, intervista a Sergio Leone”. Le interviste a Leone sono veramente pazzesche, lui è uno dei registi più interessanti da ascoltare, nasceva come tecnico quindi quello che dice non sono mai teorie strane ma dice le cose proprio pane al pane.
Seguici su Instagram, Tik Tok, Facebook e Telegram per sapere sempre cosa guardare!
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!