Il cielo brucia (titolo internazionale Afire) di Christian Petzold è stato Vincitore dell’Orso d’argento e del Gran premio della giuria a Berlino ed è attualmente presente in concorso al Torino Film Festival come secondo capitolo della trilogia di Petzold sugli elementi, iniziata con Undine-Un amore per sempre.
Mentre Undine ruota intorno all’elemento dell’acqua, il fenomeno naturale al centro de Il cielo brucia è il fuoco: pervasivo, distruttivo e insidioso, come la tensione che inonda il gruppo di giovani protagonisti della storia, ma anche principio di creazione, fonte di luce e di calore. Un elemento ambiguo e inafferrabile, come le pulsioni sotterranee che innervano le dinamiche tra Leon, Nadja, Felix e Devid.
La complessità delle relazioni interpersonali, l’amore, l’invidia, il desiderio, la paura e il rancore sono i pilastri della storia de Il cielo brucia. Come si può amare, creare e vivere appieno in un mondo post-capitalista sulla via della distruzione, dove tutto sembra sul punto di crollare da un momento all’altro?
Il cielo brucia, una crisi umana e ecologica
Due amici berlinesi, lo scrittore Leon (Thomas Schubert) e il fotografo Felix (Langston Uibel) decidono di andare in vacanza in una casa circondata dalle foreste che si affaccia sul mar Baltico, al confine tra la Germania e la Polonia. Un arrivo imprevisto sconvolge i loro piani: quello di Nadja (Paula Beer), la figlia di un collega della madre di Felix. Presto, al bizzarro gruppetto si aggiungerà anche Devid (Enno Trebbs), l’aitante bagnino amico di Nadja, che contribuirà a destabilizzare ancora di più il già precario equilibrio tra i tre.
Estate e gioventù è il binomio che attraversa Il cielo brucia. Se si pensa a un gruppo di giovani che passa l’estate insieme, le prime idee che vengono in mente riguardano la leggerezza e la spensieratezza. Ma nella torrida estate tedesca di Leon, Felix, Nadja e Devid troviamo altre caratteristiche legate a un lato più cupo della gioventù: l’irrequietezza, lo spaesamento, la solitudine, la precarietà e la frustrazione.
Ne Il cielo brucia, le inquadrature che ricostruiscono l’estate dei quattro giovani catturano l’atmosfera oziosa e languida di un’estate cocente. Nelle immagini degli amici riuniti attorno a un tavolo in mezzo al verde e delle mattinate in una spiaggia dai colori sbiaditi come quelli di una vecchia fotografia aleggia l’influenza di Rohmer, di cui Petzold ha riguardato l’intera filmografia durante il periodo di COVID.
Ma l’estate di Petzold non è una dimensione sospesa in un tempo indefinito: è un’estate immersa nella contemporaneità, devastata dalla crisi climatica e dagli incendi che stanno distruggendo le foreste tedesche. L’estate del regista tedesco diventa il campo del conflitto su diversi fronti: su cosa significhi produttività, sul legame tra arte e vita, su cosa sia l’amore al di fuori delle idealizzazioni.
A differenza di molti dei lavori precedenti di Petzold, Il cielo brucia è ambientato nel presente: le sue atmosfere e i suoi personaggi sono plasmati dalle crepe e dalle storture della contemporaneità e dal suo carattere di tempo in divenire, incerto e precario. Ma è anche un film che porta con sé l’odore di un passato in apparenza dimenticato e archiviato, ma che continua ad agire e a creare fratture e conflitti.
Il cielo brucia è un film di fantasmi: non a caso, durante la conferenza stampa, Petzold ha parlato della sua concezione di cinema come luogo popolato di spettri e ricordi, ma anche come spazio per rielaborare il passato in senso politico. E lo fa riallacciandosi anche al tema del Torino Film Festival, quest’anno dedicato alla figura di John Wayn,e rievocato attraverso le parole di Jean Luc Godard, in un dialogo che travalica il tempo e i generi.
“Sentieri Selvaggi, la morte dell’America post-guerra civile, sono fantasmi che tornano da una guerra e girovagano per dieci anni prima di essere un uomo. È un fantasma che voglio materializzare prima di essere uomo. Se non avessimo ciò, avremmo dei fantasmi che vivono tra noi. Tipo guerra del Vietnam: pensiamo a questi soldati che fanno questi massacri, dopo tornano in un mondo che ha continuato a essere normale. Sono diventati fantasmi dell’orrore. Varie situazioni vediamo questi fantasmi che vagano e tornano, così come John Wayne che torna troppo presto. Compie il suo viaggio come se fosse un soldato razzista, e lo si riaccoglie in una comunità solo dopo questo breve sguardo e breve gesto dell’abbraccio. Ho sempre pensato che il cinema fosse cinema di fantasmi, che racconta situazioni in cui le persone hanno perso qualcosa, sono fantasmi perché hanno perso il loro lavoro; da lì viene il concetto del fantasma”
Christian Petzold
Tutto questo viene veicolato attraverso una satira sottile, che ha come bersaglio il patetismo di una figura maschile di intellettuale miope e solipsista incapace di lasciarsi andare al flusso della vita ma pretende di saperla definire.
Uno studio sul mito della solitudine dell’artista
La regia si concentra sul personaggio di Leon: ripiegato su di sé, con un atteggiamento ostile e respingente nei confronti di qualunque cosa non sia il suo romanzo, egoriferito e vagamente ridicolo nel suo prendersi costantemente sul serio. Leon reca con sè un’ironia amara: è una figura che si limita ad osservare la vita senza mai farne parte, ma nel suo osservare non c’è un reale interesse per le esistenze altrui, non ne riconosce il valore. Al contrario, quando gli altri entrano nella sua sfera di azione e cercano di avvicinarsi a lui, le considera un intralcio, una scocciatura da sbrigare per poter tornare a lavoro il prima possibile.
Quello che fanno i suoi amici gli sembra inutile: qualunque cosa gli venga proposta viene rifiutata con sdegno. Leon è la caricatura dell’artista che si ritira in una solitudine autoimposta, che pone l’arte al di sopra di ogni cosa. Ma quale arte può essere generata in una solitudine arida e sterile? Che opera è quella che non è stata contaminata dall’esperienza, che non contiene la materia viva e umana fatta del tocco di mille mani, di risate e di sguardi, che fugge dalla vita? Un’opera mediocre, come quella che Leon fa leggere a Nadja e che il suo editore gli consiglierà di cestinare.
Leon crederà di essere innamorato di Nadja, ma anche quel sentimento è artificioso e posticcio: Leon è incapace di vedere veramente Nadja al di là dell’immagine statica e angelica che ha creato nella sua mente. Nei momenti in cui interagisce con lei e non può ridurla a un ideale letterario romantico, si scontra con la sua vitalità prepotente e non riesce a comprenderla: percepisce il suo vivere intensamente ogni momento con dolore, arriva persino a disprezzarla per quel suo godere a piene mani dell’esistenza senza sentire il bisogno di giustificarsi.
Petzold si prende gioco di Leon mettendo in luce i suoi lati più ridicoli, il suo ostinato e insensato fuggire dalle realtà e il suo fare altezzoso e sprezzante: ma lo fa con grande sensibilità, senza renderlo una macchietta, ma esplorando il suo disagio, scavando nelle sue insicurezze e dietro la sua superbia trova una profonda e sofferta incapacità di connessione con gli altri.
Il cielo brucia è un’opera stratificata che mostra l’importanza di immergersi nella vita e di non temere la profondità: di andare incontro al mare, come quel mare bioluminescente popolato da facce e da sguardi immortalate nelle foto di Felix, e lasciarsi trasportare dalle onde.
La mia tribù è quella degli Asra, coloro che muoiono quando amano, è il finale della poesia di Heine recitata da Nadja. Una citazione che riassume il valore dell’arte e della poesia secondo Il cielo brucia: non un modo per distaccarsi dalla realtà, ma di aderire con forza e passione al vortice della vita, assumendosi tutti i rischi del caso.
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