Credit: Stephanie Cornfield. Stéphane Ghez, fotografato da Stephanie Cornfield
Credit: Stephanie Cornfield. Stéphane Ghez, fotografato da Stephanie Cornfield

David Lynch raccontato da Stéphane Ghez, Welcome to Lynchland a Cannes 2025

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15 minuti di lettura

Ci sono immagini di passaggio, attraverso le quali ogni singolo cinefilo dovrà prima o poi scorrere. Quegli scorci rubati, spiati da piccoli attraverso una serratura sono i gentili demoni della sensibilità di chiunque ami il cinema a dismisura: David Lynch è stato uno dei più esperti creatori di tali immagini; la potenza dei suoi personaggi, dei loro suoni e colori, alberga dentro ogni spettatore già dalla prima visione. Il tempo passa, il gusto si affina, il numero di film visti sale, ma la donna danzante di Eraserhead, la nuda Isabella Rossellini di Velluto Blu e il terrificante Bobby Peru in Cuore selvaggio non perdono mai il proprio smalto, sono impressi in maniera indelebile nei ricordi di chiunque li abbia incontrati sullo schermo.

Credit: Stephanie Cornfield
David Lynch, fotografato da Stephanie Cornfield

Raccontare un talento come quello di Lynch non è certo facile compito: numerose sono state le opere a lui dedicate e numerose continueranno ad essere. Una delle più recenti -e meglio riuscite- ha debuttato all’edizione di Cannes appena conclusasi: David Lynch, A Hollywood enigma/Welcome to Lynchland (2025) è stato diretto da Stéphane Ghez, che può vantarsi di una ricca carriera documentaristica dedicata proprio alla creatività di altri artisti. Il documentario, disponibile in due versioni -internazionale e televisiva- dai diversi titoli e dalle leggermente diverse durate, ripercorre in gran dettaglio la carriera di Lynch, partendo dalla pittura e arrivando fino a Twin Peaks: The Return, ponendo una domanda centrale: quale Rosabella ha guidato Lynch in tutti questi anni? Attraverso le parole del regista e di numerosi suoi collaboratori, attraverso le interpretazioni di critici e intellettuali, Stéphane Ghez ci guida in un viaggio onirico e sentito al contempo.

Abbiamo avuto la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con Stéphane Ghez su A Hollywood enigma/Welcome to Lynchland, che ha saputo commuovere tutto il pubblico di Cannes 2025, dalla famiglia di Lynch, ai suoi colleghi, passando per il pubblico generalista.

Partiamo dalla tua carriera Stéphane: hai fatto molti altri documentari su personaggi creativi tanto quanto Lynch, da Mahler a Kokoschka. Cosa suscita in te l’interesse per questi personaggi? C’è un elemento che li accomuna tutti?

Certo. Personalmente credo si tratti del mistero dell’arte, cercare di capire quale processo spinga tutti questi artisti a produrre opere in modi diversi. Sono sicuro che aver lavorato su alcuni di loro mi abbia aiutato molto a lavorare anche su Lynch, che onestamente mi spaventava molto come soggetto di ricerca e che per certi versi rimane tuttora un mistero, anche dopo avergli dedicato un film. In particolare il documentario Joan Mitchell, una femme dans l’abstraction (2022), credo sia stato un ottimo modo per prepararmi alla complessità di Lynch, perché durante la fase iniziale di preparazione i quadri di Mitchell mi lasciavano perplesso, erano difficili e mi sono dovuto impegnare per capirli come era giusto fare. Si è trattato di un’esperienza molto formativa.

Parlaci un po’ di più del processo di preparazione: come si costruisce un documentario di questo tipo?

Tanta ricerca. Devi aver letto, visto, ascoltato tutto quello che c’è di disponibile sul personaggio di cui ti occupi… su Lynch c’è una mole gigantesca di materiale, abbiamo “saccheggiato” interviste, altri documentari -ti consiglio David Lynch: The Art life, è in assoluto il migliore-, abbiamo intervistato tantissimi suoi collaboratori. Mi piace pensare però che abbiamo fatto un documentario che tenga come punto di vista il presente: abbiamo parlato di Lynch oggi, fino a questo punto, e spero che in futuro qualcuno “saccheggerà” il nostro documentario e lo userà a sua volta per fare ricerca.

Credit: Stephanie Cornfield
Stéphane Ghez, fotografato da Stephanie Cornfield

E invece sul piano organizzativo com’è stato orchestrare le riprese con divi Hollywoodiani come Laura Dern e Kyle MacLachlan?

Complicato. Dovendo stare dentro a un budget e a una durata specifici per la diffusione televisiva abbiamo avuto soltanto dieci giorni di effettive riprese, quindi tutto era estremamente curato nella scrittura e nella progettazione. Poi c’è anche stata più di un’occasione in cui siamo stati costretti ad improvvisare… sai, io sono un grande amante del jazz e c’è questo detto fra i jazzisti che recita più o meno: “l’improvvisazione è ciò per cui ti prepari di più” e anche durante le riprese abbiamo fatto così. In particolare per le due interviste a Laura Dern e Kyle MacLachlan: lei era a girare un film a Milano e ha dato la sua disponibilità all’ultimo minuto, per cui siamo volati in Italia per intervistarla, mentre con Kyle dovevamo trovarci al Bob’s Big Boy, dove Lynch ha speso buona parte della sua giovinezza progettando i primi film, ma il posto purtroppo si è rivelato complicato da gestire; quindi abbiamo trovato un meraviglioso diner anni cinquanta fuori Los Angeles, molto isolato, dove Kyle ha acconsentito a fare l’intervista: gli interni erano perfetti, ma di fianco c’era una linea ferroviaria che guastava l’audio… alla fine anche quello ha favorito un grande momento d’improvvisazione da parte di Kyle, che ad un tratto sente il fischio del treno in lontananza e alza la testa dicendo: “il fischio solitario… mi sembra di essere tornato a Twin Peaks.”

Avete girato anche moltissime sequenze di raccordo su set ricostruiti in maniera fedelissima, in particolare quello della Loggia Nera: immagino che un conto sia vedere questi luoghi attraverso lo schermo e un altro sia effettivamente muoversi al loro interno. Come ti sei sentito a entrare per la prima volta nella Red Room?

Da brividi. Ero molto nervoso per quelle riprese, perché avevamo il set solo per gli ultimi due dei dieci giorni di riprese. Ricreare i set di Lynch aiuta moltissimo a capirlo: bisogna considerare che quando li creò aveva risorse limitate e utilizzò soprattutto materiali che aveva direttamente sotto mano, sono abbastanza sicuro che alcune sculture le avesse in casa ai tempi delle riprese. Ti fa veramente capire quanto Lynch fosse complesso nei contenuti e semplice nella pratica.

Una delle altre persone intervistate è Pacome Thiellement, un intellettuale che nel film viene definito “esegeta:” lui è al centro di alcune delle sequenze più potenti del documentario, in particolare quella finale dove tira più o meno le somme di tutto il lavoro di Lynch cucendone assieme caratteristiche ricorrenti. Parlaci un po’ del suo coinvolgimento.

Alcune delle sue teorie su Twin Peaks sono veramente affascinanti. Credo sia stato un grande acquisto per il film, al punto che Lynch stesso mi ha fatto notare quanto abbia apprezzato alcune delle sue considerazioni. Siamo riusciti a far avere il documentario a David  [Lynch, ndr], che dopo averlo visto mi ha mandato una mail entusiasta, scritta tutta in maiuscolo dove diceva proprio: “HO ADORATO IL CRITICO CINEMATOGRAFICO CHE HAI SCELTO PER IL DOCUMENTARIO. QUESTO CRITICO È UN VERO, GRANDE, QUASI GENIALE CRITICO. SONDA DAVVERO I FILM E, COME UN DETECTIVE, SCOPRE COSE. NEL SUO CASO, SCOPRE COSE CHE QUASI TUTTI GLI ALTRI CRITICI NON HANNO MAI COLTO.” Puoi immaginare l’emozione nel ricevere una mail così… un’altra cosa che Lynch mi ha scritto riguarda come abbia adorato il fatto che il film “non finisce:” anche sui titoli di coda c’è la sua voce che parla e racconta, dopo che è già apparsa la scritta “the end.”

Ma torniamo un po’ a te Stéphane: qual è stato il tuo primo viaggio a Lynchland?

Ah, ottima domanda… il primo film di Lynch che ho visto è stato The Elephant Man, ma lo vidi senza sapere chi fosse il regista, mi sembrò un film degli anni 30. il primo effettivo incontro avvenne tramite Dune, quando uscì il film ero un grande appassionato del libro e fu il modo in cui conobbi l’opera di Lynch. Ricordo che rimasi davvero colpito in particolare dal primo. Ma dopo mi innamorai di Cuore selvaggio, è un film veramente stupendo, certe immagini ti rimangono impresse… la morte di Bobby Peru è incredibile, come si fa saltare la testa! Ma poi ricordo anche quando scoprii Twin Peaks: ero con degli amici a New York, stavamo rovistando in un piccolo negozio di dischi e dvd e l’occhio mi cadde sul cofanetto completo della serie, impossibile rinunciarvi.

Nel documentario spicca in qualche modo un’unica assenza fra tutti i film diretti da Lynch, Una storia vera. Ci sono ragioni oltre alla durata limitata del film per cui non è stato incluso?

Di sicuro per la durata abbiamo dovuto dare priorità a certe cose piuttosto che ad altre, ma oltre a quello credo anche fosse un film meno interessante per il nostro percorso: noi volevamo capire Lynch, quale fosse la sua Rosabella, e Una storia vera è l’unico film che Lynch ha diretto ma non scritto. Lo ha scritto Mary Sweeney, la sua montatrice di fiducia e terza moglie, che mi premeva molto riuscire a intervistare per il documentario, quindi è un film che lui dirige ma non nasce dal suo bisogno di esprimersi.

E secondo te, qual è, al centro di tutti i film, la Rosabella di Lynch?

Il suo film certamente più personale è Eraserhead: lui era un giovane uomo molto spaventato dalla vita e ha incanalato quelle paure per creare un film assolutamente vulnerabile. C’è un’immagine in particolare secondo me molto significativa: l’uomo nella fabbrica che attiva i macchinari e mette in moto gli ingranaggi, è come se Lynch stesso accettasse di voltare pagina e rimettere in moto il suo destino. Ma oltre a Eraserhead credo che la visione più significativa sia l’episodio della donna nuda che ispirò Velluto blu: Lynch raccontava che da bambino, mentre giocava per strada vide uscire da una villetta vicina una donna completamente nuda; percepì un senso di torbido e violenza che si è portato dietro per tutta la vita. Ma oltre a questo ho la sensazione che ci sia qualcosa nella sua infanzia di ancora più recondito che non ha mai raccontato.

Per concludere: parlaci di come ti sei sentito quando le luci si sono accese in sala dopo la prima proiezione a Cannes. Diverse testate hanno riportato che tutto il pubblico era profondamente commosso da ciò che avevano appena visto.

Mi sentivo moltissimo in imbarazzo, perché in sala era presente anche Riley Lynch, il figlio di David, che vedeva il film per la prima volta. Per fortuna a fine proiezione ha avuto solo belle cose da dire. Oltre a questo è stato bellissimo guardare il film insieme ad un pubblico vero e proprio, che reagiva in tempo reale ridendo o commuovendosi.

Qualcosa con cui vuoi salutarci?

Vorrei tanto provare a dirigere un nuovo documentario solo su Twin Peaks. Sarebbe un’esperienza stupenda. Intanto per il pubblico italiano interessato a vedere David Lynch, A Hollywood enigma la prima proiezione sarà il 21 giugno a Bologna, in occasione del Festival del Cinema Ritrovato, e dopo qualche tempo sarà reperibile sul canale di Arte.


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Appassionato e studioso di cinema fin dalla tenera età, combatto ogni giorno cercando di fare divulgazione cinematografica scrivendo, postando e parlando di film ad ogni occasione. Andare al cinema è un'esperienza religiosa: non solo perché credere che suoni e colori in rapida successione possano cambiare il mondo è un atto di pura fede, ma anche perché di fronte ai film siamo tutti uguali. Nel buio di una stanza di proiezione siamo solo silhouette che ridono e piangono all'unisono. E credo che questo sia bellissimo.

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