Sholay

Sholay, sussurri e grida in Piazza Maggiore

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Impossibile scindere Sholay (1975), gargantuesco cult del cinema indiano completamente sconosciuto ai pubblici occidentali, dall’averlo visto in Piazza Maggiore a Bologna durante Il Cinema Ritrovato. Sul gigantesco schermo all’aperto sono sfilate immagini e musiche che hanno reso l’atmosfera della serata semplicemente elettrica.

Sholay

Il film è stato proiettato in una versione restaurata con ben 30 minuti aggiuntivi – che portano la durata complessiva ad un titanico 3 ore e mezza – fra scene tagliate e finale originariamente censurato. Alla presenza di Shivendra Singh Dungarpur e Shehzad Sippy, rispettivamente fondatore della Film Heritage Foundation e figlio del regista, il film è stato un successo di partecipazione da parte del tessuto sociale bolognese.

Sholay, ovvero “braci”

Sholay è un classico che nella storia del cinema insegnata in occidente non viene mai nominato. Si tratta di una gigantesca produzione indiana, costellata di azione, romanticismo e musica. Per fare un paragone di facile comprensione, è uno storico analogo del recente RRR (2022), nonostante in realtà i due abbiano ben poco in comune oltre alla formula indiana di action musicato e sopra le righe: il primo è infatti stato girato in hindi a Bollywood, mentre il secondo è stato girato in telugu e all’interno dell’industria cinematografica di Tollywood, per poi essere doppiato in altre lingue indiane soltanto in seguito.

Conviene ricordarlo: il cinema indiano è tutt’altro che monolitico. Bollywood è soltanto una delle numerosissime industrie che compongono il settore cinematografico del paese, precisamente quella collocata a Mumbai – ex Bombay, da cui il nome. Tollywood ad esempio si trova a Hyderabad e possiede una tradizione completamente diversa da quella generalmente associata all’estero al cinema indiano. Senza contare poi tutto il sottobosco autoriale che esiste al difuori delle logiche industriali della nazione, come dimostrato da film come Giorni e Notti nella Foresta (1970), recensito sempre in occasione de Il Cinema Ritrovato.

Sholay

Detto questo, conviene spendere qualche altra parola sul complesso ecosistema di generi di cui Sholay fa parte: viene considerato sia un masala film, ovvero un’opera che mescola diversi generi contemporaneamente, sia un decoit film, specifico sottogenere indiano di polizieschi-action. Inoltre Sholay pare aver dato il via alla tendenza dei cosiddetti “curry western direttamente ispirati sia dal samurai film giapponese, sia dallo spaghetti western italiano.

“Sholay” può essere tradotto con “braci” o più genericamente “fiamme”. Il titolo può essere interpretato secondo entrambe le traduzioni, sia ad indicare una prova da superare, sia come la bruciante passione che arde nei cuori dei protagonisti. Si tratta di due simpatici criminali, Veeru e Jai, interpretati rispettivamente da Dharamendra e Amitabh Bachchan, superstar del periodo degli anni ’70. I due vengono convocati da un loro vecchio avversario, l’ex commissario Thakur, per sconfiggere il temibile bandito Gabbar Singh. Giusto per provare a capire l’impatto culturale del film, durante l’introduzione in Piazza Maggiore Dungarpur ha raccontato che per anni le madri indiane minacciavano i figli disubbidienti dicendo che: “se non fate i bravi vi viene a prendere Gabbar“.

Applausi a scena aperta

Con una semplice premessa come buoni contro cattivi, è la forma a dover essere accattivante. Sholay certo non delude su questo punto. Il film inizia con una spudorata citazione a C’era una volta il West (1968) con tanto di arrivo del treno in una remota stazione silente. Ma il silenzio non dura molto: in qualche minuto si parte con un vero e proprio assalto al treno, con tanto di sparatorie a cavallo, inseguimenti sopra i vagoni e cazzotti alla Bud Spencer e Terence Hill.

Subito dopo, il primo numero musicale di tanti è interpretato dai protagonisti durante una complessa coreografia in moto ed utilizzato dal regista Ramesh Sippy come espediente narrativo del tutto legittimo nel stabilire rapporti fra i personaggi e salienti punti di trama. Dopo ancora, uno spassosissimo omaggio a Il Grande Dittatore (1940), baffetti, mappamondo e tutto il resto. Insomma, da qui in poi Sholay è un vero e proprio saliscendi di divertimento e montagne russe. Per la prima volta da che ho memoria, Piazza Maggiore era attraversata da sussurri durante passaggi più tesi, solo per poi eruttare in scroscianti applausi a scena aperta e urla di tifoseria al comparire degli eroi.

Sholay

Perché bisogna riconoscerlo: Sholay sa bene come costruire tensione. Prendendo in prestito da I Sette Samurai (1954) e dalle epiche western di Leone, l’azione e il dramma funzionano. Funzionano un po’ meno le quasi quattro ore di durata, che non a caso hanno ammazzato il tanto manifesto entusiasmo iniziale del pubblico. Ma oltre a questo, l’umorismo stempera bene la serietà con cui il film stesso si prende: il risultato è un più o meno felice incontro fra la “caciara” di Lo chiamavano Trinità (1970) e la drammaturgia di Sergio Leone, non troppo dissimile dal film di Tonino Valeri Il mio nome è Nessuno (1973), diretto per metà dallo stesso Leone e metà pensato per lucrare sul successo di Terence Hill.

Forse le due conclusioni più interessanti da trarre dalla visione di Sholay sono due: la prima è che i film “parco dei divertimenti” descritti da Martin Scorsese nel criticare i prodotti Marvel sono in qualche modo sempre esistiti, e che applaudire al primo “Avengers assemble” della saga Disneyiana non è certamente diverso dall’applaudire alla comparsa degli eroi di Sholay nel salvare la giornata per la settima volta. Si badi bene, questa considerazione ha una valenza strettamente neutrale, che non implica né un valore positivo né tantomeno uno negativo nella partecipazione attiva del pubblico durante una proiezione, ma che semplicemente ne vuole riportare la trasversalità attraverso il tempo e lo spazio della storia del cinema.

La seconda conclusione ha un valore più sociale che cinematografico. In Piazza Maggiore il 27 giugno 2025 era impossibile ignorare la massiccia presenza di persone di discendenza indiana, accorse ad assistere ad una meravigliosa proiezione pubblica e gratuita di un classico della loro infanzia. Osare inserendo in programmazioni pubbliche prodotti anche culturalmente distanti dai nostri e di respiro popolare evidentemente ha degli enormi benefici: da un lato offri al pubblico generalista una finestra su una cultura distante, nutrendone la curiosità e allenandone il muscolo empatico; dall’altro favorisci l’integrazione di famiglie immigrate di prima o seconda generazione che si sentono parte della vita pubblica, invitate a partecipare a eventi collettivizzanti come quello andato in scena l’altra sera a Bologna.

In conclusione, permettete un aneddoto personale: ricordo bene che intorno al 2010, durante i mesi estivi la RAI era solita programmare intere rassegne di film Bollywood, anche di recente uscita. Mi chiedo come mai iniziative di questo tipo siano state abbandonate ora che più che mai avremmo bisogno di confrontarci col diverso. Vedete Sholay, magari usufruendo dell’intermezzo per sgranchirvi le gambe, e prendendolo per quello che è: grande intrattenimento, nulla più. Ma vedetelo e provate a capirne l’impatto culturale, nonostante nessuno di noi abbia mai sentito nominare Gabbar quando ci rifiutavamo di mangiare le verdure sul nostro piatto.


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Appassionato e studioso di cinema fin dalla tenera età, combatto ogni giorno cercando di fare divulgazione cinematografica scrivendo, postando e parlando di film ad ogni occasione. Andare al cinema è un'esperienza religiosa: non solo perché credere che suoni e colori in rapida successione possano cambiare il mondo è un atto di pura fede, ma anche perché di fronte ai film siamo tutti uguali. Nel buio di una stanza di proiezione siamo solo silhouette che ridono e piangono all'unisono. E credo che questo sia bellissimo.

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