Anche quest’anno Bologna accoglie cinefili da tutto il mondo per il festival del Cinema Ritrovato, che si svolge ufficialmente dal 21 al 29 giugno. A inaugurare questa celebrazione del cinema restaurato è Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini, uno dei grandi maestri del nostro cinema. L’autore è stato recentemente riscoperto anche grazie al successo del film della figlia Francesca, Il tempo che ci vuole, premiato con cinque Nastri d’argento. Dovendo presenziare alla cerimonia dei Nastri, Francesca Comencini si è collegata da remoto e ha introdotto il film del padre, rivolgendo al pubblico qualche parola sulla sua eredità artistica.
Piazza Maggiore si è illuminata ancora una volta con la magia del proiettore, mentre gli occhi degli spettatori si lasciavano incantare dalle disavventure del celebre burattino, proiettate sotto un cielo stellato.
Pinocchio tra Carlo Collodi e Luigi Comencini
Dimenticate il Pinocchio della Disney, così come quello recente di Matteo Garrone e i numerosi adattamenti meno noti: Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini è l’interpretazione definitiva. Nato come sceneggiato televisivo suddiviso in cinque episodi, la versione cinematografica dura 135 minuti, costringendo così a omettere diverse parti del romanzo. Nonostante ciò, è sorprendente come Comencini riesca a mantenere perfettamente il tono del testo originale: emerge sia il racconto di formazione che l’atmosfera fantastica.
Le avventure di Pinocchio conserva gli elementi bizzarri, talvolta grotteschi, della narrazione di Collodi. Particolarmente fedele è la scelta di alternare tra un bambino vero e un burattino nella rappresentazione di Pinocchio: quando si comporta male, il bambino torna a essere di legno. Allo stesso modo, viene mostrata senza filtri la scena dell’impiccagione da parte del Gatto e della Volpe: un momento visivamente scioccante per un bambino, ma che rende la storia più radicata nella realtà e più credibile. Sin dall’inizio, infatti, si percepisce che Pinocchio non abita un mondo fiabesco, bensì la cruda realtà dell’Italia ottocentesca.

C’è inoltre un forte radicamento territoriale e culturale che dà al film un senso di realismo quotidiano, tangibile e autentico. Guardando Le avventure di Pinocchio si percepisce una vera e propria “toscanità“, paragonabile a quella che emerge in film di Virzì o Benigni: un racconto legato a un luogo preciso, con le sue usanze, i suoi accenti, la sua gente. Le avventure di Pinocchio fa davvero sentire lo spettatore immerso in un’autentica e pittoresca campagna toscana.
L’impianto neorealista de Le avventure di Pinocchio

Il contributo di Comencini alla base collodiana è chiaramente anche sociale: il messaggio trasmesso dallo schermo è attualizzato per gli anni ’70. La povertà rappresentata in Le avventure di Pinocchio è sicuramente quella di fine Ottocento, ma risuona profondamente con le condizioni del dopoguerra e del periodo immediatamente precedente al boom economico italiano. L’ambientazione in territori assolati, ancora intatti e non toccati dalla gentrificazione, restituisce con ancora maggiore forza la realtà dell’epoca, fatta di piccole comunità sparse e autentiche.
La messa in scena, dai primi piani dei bambini allo squallore della vita popolare, richiama in modo inequivocabile i topoi del Neorealismo italiano. Guardando Geppetto camminare sconsolato al freddo, pronto a vendere la propria giacca per racimolare qualche moneta in più, è impossibile non pensare al protagonista di Umberto D., parabola emblematica dei padri abbandonati, non solo dai figli ma dallo propria nazione. Allo stesso modo, l’innocenza che accompagna Pinocchio alla scoperta del mondo richiama lo sguardo limpido dei bambini neorealisti, da Roma città aperta a Ladri di biciclette.

Ancora, nella sequenza al porto, in cui Geppetto cerca di seguire (erroneamente) Pinocchio in America, gli sguardi dei popolani, dei pescatori, avvolti da scialli neri e con gli occhi semichiusi per il sole, riportano a La terra trema di Visconti. La genialità di Comencini sta poi nel tagliare questa sequenza melodrammatica con una gag comica: gli abitanti del villaggio che camminano via sconsolati quando Geppetto cade in mare, per poi tornare a guardare con interesse quando Pinocchio prova a seguirlo.
Un mix tra comicità e serietà bizzarra, difficile da definire come Commedia all’Italiana, proprio perché fatta di sbalzi, cambi di toni, contrasto. Comencini non ha paura di usare un linguaggio tutto suo, che tiene lo spettatore costantemente attaccato allo schermo, curioso di sapere quale sarà l’impianto tonale della scena successiva.
Le avventure di Pinocchio, il racconto come insegnamento per l’infanzia

Gli sguardi di complicità tra Pinocchio e Lucignolo, soprattutto quando quest’ultimo conduce il protagonista al Paese dei Balocchi, ricordano il rapporto instaurato tra i bambini in Sciuscià. A questo film si fa anche riferimento nella scena del giudice (interpretato dal regista di Sciuscià, Vittorio De Sica), che evidenzia come il sistema giudiziario dell’epoca non fosse volto a proteggere i minori, ma a punirli semplicemente per la loro esistenza.
È una lezione dura, che richiama anche I 400 colpi di Truffaut, dove è assente una reale rieducazione infantile; esiste solo la costante punizione per quelle che sono semplici ragazzate, errori comuni dell’età. In Le avventure di Pinocchio, uno dei due maestri della Fata Turchina sostiene che Pinocchio dovrebbe diventare un bambino vero non per diritto, ma solo perché punirlo da burattino è troppo complicato e provoca sofferenza anche all’adulto. “Lo scappellotto, fondamento indispensabile dell’insegnamento”, è una battuta del personaggio in questione, la quale suggerisce un’impossibilità di dialogo tra adulti e bambini: l’unico strumento educativo è la violenza.

Lo sguardo di Comencini è chiaramente compassionevole nei confronti dell’infanzia, che considera la parte più giusta e piena di meraviglia dell’umanità. Tuttavia, riesce a mantenere sempre una certa distanza critica: alternando momenti intensamente melodrammatici a scene di slapstick comedy, il regista offre un’opera che muta prospettiva a seconda di chi la osserva. Non c’è moralismo in Le avventure di Pinocchio, ma semplicemente la possibilità, offerta allo spettatore, di provare empatia quando lo si desidera.
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