Per raccontare le giornate della Resistenza, non è sempre necessario seguire i grandi percorsi storici. «La Notte di San Lorenzo» (1982) dei fratelli Taviani, Paolo e Vittorio, sceglie un evento minore, quasi del tutto insignificante per la parabola bellica, ma di reale e grande impatto umano.
La rielaborazione parte dalla «Strage del Duomo di San Miniato» (luogo di nascita dei registi), evento dell’estate ’44 che, contrariamente ad un primo momento di attribuzione nazista, l’indagine storica ha rivelato trattarsi di un incidente bellico negli scontri tra americani e tedeschi.
Il film, co-sceneggiato da Tonino Guerra, splendidamente musicato da Nicola Piovani, ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria alla 35ª edizione del Festival di Cannes.
Presentato questa sera anche su Rai Movie (ore 21:15); più di un motivo per vederlo.
«La notte di San Lorenzo», trama
Estate ’44, il paese di San Martino (nome di fantasia per San Miniato), è al centro della guerra di Resistenza. I nazisti, sapendo della lenta avanzata delle truppe Alleate, ordinano alla popolazione barricata di riunirsi nel Duomo. Ma un gruppo di uomini, donne e bambini, guidato dal fattore Galvano (Omero Antonutti), temendo una possibile trappola, abbandona il paese, per incontrare gli americani che arrivano da sud. Poco dopo nella chiesa avviene la strage.
I fuggitivi si agganciano ad un gruppo di contadini legati alla Resistenza. Qui vivacchiano in attesa dello scontro con i fascisti, sulle loro tracce. Lo scontro così avviene, in un campo di grano. Qui diversi membri della comunità di San Martino perdono la vita, così come molte delle camice nere. Ma poco dopo questo scontro, arriva la notizia della Liberazione.
Trasfigurazione e realtà storica
La vicenda viene narrata attraverso i ricordi di Cecilia, una bambina di sei anni al tempo dei fatti narrati. Grazie al nonno appassionato di versi epici, la bambina traduce il quotidiano vissuto in un racconto mitico. La fuga dal paese ricorda l’Esodo biblico, i membri del gruppo rassembrano eroi omerici pronti a combattere e difendere la propria patria e la propria dignità. Il fascista interpretato da David Riondino è trafitto da lance oplite immaginifiche.
Questo precipitato mitologico, che accompagna il film, non può essere trascurato. Anche se c’è una rinuncia ad una verità storica di stampo documentarista, si realizza ugualmente un cinema della memoria. Un tipo di memoria che rimane coerente, perché espressione diretta del percorso personale dei fratelli registi.
Aiutati anche da Tonino Guerra immettono dosi di trasporto emotivo, per il ricordo delle vicende personali.
Una ferita ancora aperta
Il film guarda, piuttosto che la guerra, alla ferita sociale causata dalla guerra civile, rossi contro neri, che aveva diviso compaesani e anche stessi nuclei familiari. Una nazione liberata, che tuttavia rimaneva divisa al proprio interno.
La violenza del film non necessita di particolari effetti speciali o fiumi di sangue. Cosa può esistere di più tremendo di una bambina con un mitra puntato in fronte? Di un padre che vede morire il proprio figlio? Di un esplosione in una Chiesa?
Il film restituisce ancora oggi, giorno della Liberazione, la straboccante sensazione di rabbia e indignazione per una storia dolorosa, triste ed emblematica dei destini della povera gente. Traversie veicolate da scelte politiche scellerate, divisive, disumane; passate ma ben presenti nelle riflessioni quotidiane sulla società civile, sul vivere insieme.
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