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Il lungo addio

Il lungo addio, il noir malinconico di Robert Altman

4 minuti di lettura

Il lungo addio è frutto dell’ingegno di Robert Altman. Film noir realizzato nel 1973, nel pieno della New Hollywood, riprende il romanzo omonimo di Raymond Chandler, sesto della saga, pubblicato vent’anni prima.

Di questo romanzo, piace al regista la sensazione di fine incombente, l’alienamento marcato verso una società che fatica a riconoscere. Dove ormai sono persi i canoni classici del primo Il grande sonno.

Il protagonista, il detective Philip Marlowe, che nel libro funge da voce narrante, è interpretato da Elliott Gould, autentico caratterista di quel periodo innovativo per il cinema americano.

Film che non ha avuto riconoscimenti immediati, ma che è punto fisso non solamente del genere noir, ma dell’arte cinematografica tout court.

Un classico noir?

il lungo addio

L’investigatore Philip Marlowe (Elliott Gould) accompagna in Messico il suo amico Terry Lennox (Jim Bouton), che però scopre poi essere accusato dell’omicidio della moglie. Lo stesso Marlowe è sospettato e viene tenuto in custodia. Quando emerge la notizia del suicidio di Lennox, tutto sembra chiudersi per il meglio, e Marlowe accetta un nuovo incarico da parte della moglie dello scrittore alcoolizzato Roger Wade (Sterling Hayden). Ma le scoperte che farà metteranno in crisi le sue certezze.

Il lungo addio alla tradizione

il lungo addio

Rispetto alle trasposizioni cinematografiche precedenti della saga di Chandler, Il lungo addio è una pietra di scandalo. Perché Altman opera un sapiente lavoro di svuotamento degli stilemi classici del personaggio di Marlowe. Lo fa gettandolo in una Los Angeles post moderna, ben diversa da quella iconicamente riconosciuta. Dove le atmosfere notturne sono sostituite da calde sequenze (Grazie alla fotografia di Zsigmond).

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Lo fa partendo dal rispetto delle opere precedenti, che sicuramente rappresentavano già lavori di indubbio valore. Ma operando una lenta e attenta modifica. Dove il protagonista diventa sempre più un anti-eroe, travolto da eventi e personaggi, con movimenti da felino, sempre un passo indietro per osservare, un passo avanti per sopravvivere.

Lo fa con Villain che non riescono più ad essere feroci e cinici. Sono anche loro presi da sensi di colpa, debolezze, dipendenze. Sterling Hayden è imponente non solo per la stazza fisica, ma per la capacità di occupare lo spazio scenico, nonostante le difficoltà alcoliche e di una vita furibonda.

Un Marlowe tutto nuovo

il lungo addio

Il lungo addio perde la dose di suspense che caratterizzava i lavori precedenti, così legati al lento disvelamento della matassa noir. Subentra invece la componente dell’inquietudine, che si solidifica fino a diventare un proiettile, ultimo, inaspettato.

Il Marlowe di Elliot Gould pare un perdente, ben lontano dall’aurea del successo che accompagnava l’interpretazione di Humprey Bogart. Un perdente per il quale è sempre It’s ok with me, che non riesce a condurre le indagini, ma viene condotto da interessi altrui.

Ma nel finale, poche battute che riscrivono il personaggio.

T: “Il solito Marlowe. Non imparerai mai, perdi sempre.”

P: “Non questa volta.”


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Amo le storie. Che siano una partita di calcio, un romanzo, un film o la biografia di qualcuno. Mi piace seguire il lento dispiegarsi di una trama, che sia imprevedibile; le memorie di una vita, o di un giorno. Preferisco il passato al presente, il bianco e nero al colore, ma non disdegno il Technicolor. Bulimico di generi cinematografici, purché pongano domande e dubbi nello spettatore.

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