“Questo non dovrebbe essere un film…
ma lo è”.
È con queste parole, scritte su schermo da una tastiera di un computer, che inizia My First Film, opera prima della regista e performer americana Zia Anger. L’opera, prodotta e distribuita dalla/sulla piattaforma di streaming MUBI, nasce infatti come un’installazione artistica di natura multimediale, in cui, tramite una registrazione del proprio desktop, l’artista raccontava la propria esperienza rispetto alla produzione del suo primo lungometraggio.
La “expanded cinema performance”, così viene definita dalla sua autrice, ottenne un successo tale da far partire un progetto di lungometraggio ibrido – in cui la finzione si interseca col documentario – che racconti la stessa storia, andando tuttavia ad analizzare in maniera più approfondita molte delle tematiche già precedentemente affrontate. Il risultato è un prodotto formalmente e contenutisticamente audace, capace di analizzare e interpretare temi come la crescita, il fallimento, la creazione artistica in maniera originale, fresca e sentitamente personale.
My First Film e la difficoltà di creare
Al centro di My First Film troviamo Vera (Odessa Young), una giovane filmmaker alter ego della regista, che ricorda e ripensa a quando diresse il suo primo lungometraggio, Always, All Ways Anne Marie, un film realizzato con un micro-budget di poco più di quattromila dollari, una crew di giovani appassionati (e spesso non professionisti) e tante ambizioni. Il film è stato, tuttavia, un fallimento: la troupe decide di abbandonare le riprese a metà produzione, a seguito di un grave incidente; una volta completato, il film viene rifiutato da tutti i festival.
Sin dalla sinossi si comprende come uno dei principali temi della pellicola sia la riflessione – di matrice autobiografica – sull’atto creativo. Vera è ossessionata dal realizzare questo film: nato da esperienze e sentimenti personali, vissuti dalla giovane, Always, All Ways Anne Marie rappresenta per la protagonista il tentativo di esprimere ciò che non riesce a dire a parole. Il cinema diventa lo strumento prediletto per affrontare dolori privati, un mezzo catartico attraverso cui affrontare i propri demoni e la propria interiorità – in questo senso, sembra richiamare The Brutalist, recentemente visto alla scorsa Mostra del cinema di Venezia.
Come in quest’ultimo titolo, il processo di creazione all’interno di My First Film porta con sé intrinsecamente una forma di dolore: Vera vive l’intera produzione da un lato col senso di onnipotenza che vive l’artista, in grado di plasmare la realtà che la circonda a proprio piacimento e in base a ciò di cui il film necessita, dall’altro lato però con l’angoscia dettata non solo dal rielaborare eventi traumatici del suo passato recente, ma anche dal pensiero che il film, dato anche le condizioni produttive in cui è stato girato, possa risultare brutto.
La realizzazione di Always, All Ways Anne Marie è infatti segnata da un insieme di tecnici più impegnati a sballarsi che non a realizzare un film, da una regista, spesso sotto effetto di Adderall, che si dimostra col passare del tempo sempre più volubile e sempre meno certa del progetto che sta portando avanti: nel corso di My First Film è chiaro come la visione della protagonista si comprometta sempre di più, al punto da diventare un cumulo di idee astratte e molto confuse. Queste daranno vita al progetto finito, che si rivelerà, a detta della stessa regista, un fallimento.
A differenza del film di The Brutalist di Corbet, quindi, dove la difficoltà dell’atto di creazione è allo stesso modo intrinsecamente legata all’artista, in My First Film di Zia Anger questo stretto rapporto tra creazione e dolore è sostanzialmente legato all’incapacità dell’artista di saper tirare fuori ciò che a dentro, talmente oscuro e profondo da scontrarsi con la realtà materiale e i suoi limiti, incapace di esprimere, con i suoi numerosi problemi, i lati più oscuri e inaccessibili del nostro stesso essere.
Imparare ad abbandonare per crescere
Alla base di My First Film vi è, dunque, un fallimento personale e artistico nella vita di Zia Anger. Un fallimento di cui l’autrice del film diventa consapevole solo nel tempo, solo alla fine della produzione di Always, All Ways Anne Marie. È proprio in questa consapevolezza che il personaggio di Vera compie il proprio arco di crescita e di sviluppo: attraverso il riconoscimento dell’errore.
La consapevolezza dello sbaglio come segno della crescita determina non solo il punto di vista attraverso cui viene osservata l’intera vicenda – la Vera maturata, quella che sta scrivendo My First Film anni dopo gli avvenimento narrati – ma anche uno degli snodi tematici principali della pellicola, quello che fa sì che essa possa iscriversi anche al genere del coming of age.
Il coming of age della protagonista non si lega tuttavia solo alla dimensione dell’artista: nel corso del film emerge prepotentemente il tema della maternità, fil rouge che segue tutto il percorso della giovane raccontato nella pellicola. La stessa, infatti, si apre con una delle due mamme di Vera che, attraverso il mimo, simula l’attività dell’utero durante l’ovulazione; durante la pellicola, Vera si troverà ad affrontare due aborti, in due momenti diversi della propria vita – il primo di essi è uno degli eventi che cerca di esorcizzare con Always, All Ways Anne Marie.
La creazione artistica e la maternità, in My First Film, si legano a doppio filo: due processi che creano, e che arrecano conseguenze importanti a chi li porta avanti. Due realtà che la protagonista si trova costretta ad affrontare contemporaneamente all’interno della pellicola, visto che durante le riprese rimane incinta del compagno del tempo. Questo profondo legame fa sì che il film sia leggibile come un’epopea strettamente femminile, sottolineando anche lo sguardo che viene gettato sulle vicende, e il modo in cui esse vengono interpretate e lette.
Proprio in questa epopea del femminile, l’alter ego di Zia Anger deve imparare a lasciar andare, a fallire: in un mondo il cui il fallimento non è contemplato, non è ammissibile, soprattutto per una donna, Vera dovrà imparare ad abbandonare ciò in cui non riesce – sia tramite l’abbandono del film, sia tramite l’aborto. Ed è proprio attraverso un’evidente messinscena di aborto che la pellicola si chiude: questo gesto diviene metafora (per quanto magari un po’ didascalico e diretto) di quella capacità di lasciar andare che nella società contemporanea è quantomai complesso.
In questo senso, focalizzare il racconto del coming of age proprio sull’idea del fallimento – rendendolo dunque il vero e proprio motore della narrazione e della creatività: si da infatti nuova vita ad un qualcosa di fallimentare, di erroneo – si pone non solo come una chiave di lettura forte delle vicende, ma diventa il vero e proprio motore, centro di un’operazione artistica estremamente personale.
Caos creativo ed estetico
Ed è proprio in virtù di questa forte personalità della materia narrata che My First Film si presenta come stilisticamente audace. Ereditando dall’omonima performance la forte identità digitale e online del progetto, il film si presenta come un ibrido, un pastiche di immagini e forme filmiche: dal documentario alla finzione, passando per l’archivio e il riuso di immagini più o meno contemporanee, il lavoro fatto sulle immagini che compongono il film è quello della sintesi visiva, facendo sì che il progetto si inserisca nel filone assolutamente contemporaneo del cinema del reale – si veda, a titolo di esempio, anche Kokomo City, altro film del reale che fonde linguaggi visivi diversi.
Se Kokomo City puntava a fondere tipologie di immagini diverse, My First Film invece si fregia di operare su immaginati diversi: finzione scenica, materiale d’archivio privato, immagini di altri film (nello specifico, At Land di Maya Deren), TikTok e video in verticale tratti da un cellulare privato vengono costantemente accostati, nella loro eterogeneità, a voler sottolineare la caoticità e la complessità del periodo della vita che la protagonista sta attraversando.
Questa complessità viene ulteriormente rimarcata dalla continua rottura dei piani di realtà: in più occasioni, nella finzione scenica irrompe la realtà del set, fino ad arrivare nel finale, in cui entra in scena il corpo di Zia Anger, la vera regista di My First Film, che interagisce direttamente con Odessa Young in scena, fino ad arrivare ad abbracciarla: un’immagine potente, evocativa dell’approccio che la stessa regista ha nei confronti della materia narrata e, di conseguenza, del suo stesso passato.
Un’immagine, però, che sarebbe stata impossibile senza la natura ibrida, sperimentale del film stesso. Un approccio alla forma e all’estetica, quello adottato da Anger, sicuramente libero, che sfida le convenzioni e i generi predefiniti, sfida le aspettative del pubblico per restituire, tuttavia, un’opera caotica e complessa, che è al tempo stesso però personalissima, intima, sentita. My First Film è un’opera, quindi, che non fa sconti, ma che al tempo stesso è capace di restituire il caos della vita di una donna a vent’anni, vitale e complicata al tempo stesso.
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