A tre anni di distanza dal sorprendente e visionario Vox Lux, è approdato all’81a Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia il nuovo, attesissimo, lavoro di Brady Corbet: The Brutalist, mostrato qui al Lido occasionalmente nel formato 70 mm in cui è stato girato. In una mostra che, almeno fino a questo momento, si è dimostrata di buon livello, ma con poche punte particolarmente alte nelle competizioni principali, l’opera di Corbet arriva come un fulmine a ciel sereno, imponendosi di diritto con la sua epica gravitas non solo come il titolo necessario da recuperare nella kermesse veneziana del 2024, ma anche come una delle pellicole più importanti degli ultimi anni.
Le vicende di László Tóth da Budapest a Philadelphia
Ispirato ai temi del romanzo La fonte meravigliosa di Ayn Rand, The Brutalist segue le vicende di László Tóth (Adrien Brody), architetto ungherese di origine ebrea che approda in America nel 1947 per sfuggire al trauma dei campi di concentramento dov’è stato detenuto. Dapprima costretto a una vita di indigenza, il geniale architetto formatosi alla Bauhaus riesce col tempo a lavorare ad un progetto immenso: un centro culturale alla periferia di Philadelphia, voluto e finanziato dal ricco e volubile magnate Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce).
Nel corso delle sue tre ore e trentacinque minuti – comprensive però di un intervallo di quindici minuti – il regista e co-sceneggiatore statunitense (assieme a Mona Fastvold) costruisce un intreccio di ampio respiro, che copre quasi quarant’anni di storia e di Storia, creando una grande epopea americana come non si vedevano da tempo al cinema – si pensi a C’era una volta in America (Sergio Leone, 1984) o There will be blood (Paul Thomas Anderson, 2007), a titolo di esempio.
La storia raccontata in The Brutalist si iscrive pienamente, oltre che in una già battuta tradizione di epopee cinematografiche, anche nella tradizione del Grande Romanzo Americano, vale a dire quella tipologia di opere letterarie importanti, sia per qualità sia per mole, che incapsulano l’essenza dell’America, il suo essere più profondo e veritiero. In The Brutalist questa riflessione viene veicolata attraverso la continua opposizione tra Stati Uniti ed Europa, incarnata nelle figure antitetiche di Van Buren e Tóth: il primo algido, attaccato ai beni materiali, avaro, emotivamente instabile e distante; il secondo colto, geniale, passionale.
Il loro rapporto, fatto di stima reciproca ma anche di sopraffazioni e abusi, si fonda su una profonda invidia per ciò che l’uno non possiede dell’altro: a Van Buren manca il senso di bellezza e la cultura, a Tóth il danaro e le possibilità di una vita stabile, dettata anche da una situazione familiare problematica, segnata gravemente dalla guerra – sia la moglie Erzsébet (Felicity Jones) sia la nipote (Raffey Cassidy) sono rimaste infatti prima bloccate in Europa, poi fortemente traumatizzate nel corpo o nello spirito.
Il percorso del protagonista eroico di The Brutalist nello specifico segue la classica parabola del sogno americano: partendo dal nulla (nel suo caso, da una nave di immigrati provenienti dall’Europa dell’Est) è possibile arrivare al successo, ma anche perdere tutto da un momento all’altro. Nel corso di trent’anni di realizzazione del suo capolavoro, il personaggio di Adrien Brody incontra non pochi ostacoli e difficoltà esterne (anche legate alla figura di Van Buren), che lo porteranno ad intossicarsi e a sviluppare una dipendenza da oppio, rappresentazione visiva del veleno che penetra nel corpo dei personaggi una volta entrati in America, al tempo stesso estatico e distruttivo.
Di contro, Van Buren è una figura che sembra distante da ciò che rappresenta Tóth: dedito solo agli affari e attaccato al denaro, non s’interessa di cultura, sesso e droghe – i palliativi dell’architetto – perché fondamentalmente non ne ha bisogno. L’imprenditore americano possiede già tutto ciò che nella cultura americana era considerato emblema del successo: ricchezza, potere, una famiglia secondo l’ideale borghese (i figli Van Buren sono interpretati da Joe Alwyn e Stacy Martin).
L’arrivo del geniale architetto, con il suo prestigioso passato tenuto nascosto e la sua forte cultura, attentano il suo stesso modo di vivere, generando un’invidia che porta ad un’escalation di violenza e soprusi ai danni dell’artista, atta a reprimere il suo senso di disagio di fronte all’incapacità di vivere il presente, chiuso in un mondo lontano dalla bellezza e dalla Storia.
È proprio nel rapporto antitetico tra Tóth e Van Buren, fatto di due visioni del mondo e di sistemi di valori diametralmente opposti – e dunque inevitabilmente destinati al conflitto – che emerge il vero volto dell’America, presentato in The Brutalist come una realtà asettica, dominata dall’avarizia e dalla freddezza, che ingloba dentro di sé il bello, ciò che non si può comprare e che non si può avere, fino a corromperlo e ad annichilirlo.
Una visione, questa, che viene puntualmente riassunta in una delle prime immagini della pellicola: una volta uscito dalla nave con cui ha attraversato l’Oceano, Tóth vede per la prima volta la Statua della Libertà, ripresa da Corbet a testa in giù. Il massimo emblema dei valori statunitensi viene letteralmente rovesciato, ad anticipare una lettura del sistema americano che ne evidenzia i limiti, la fallacia: il sogno americano come valore assoluto è solo un’illusione, inevitabilmente bisogna scendere a compromessi e operare rinunce e sacrifici per poter raggiungere il tanto atteso e sperato successo.
The Brutalist: arte, dolore, vita
In The Brutalist il discorso sull’America e sul suo potere distruttivo si lega intrinsecamente ad un discorso sull’arte e sul suo processo di creazione. Non è difficile leggere infatti nell’architetto brutalista la metafora dell’artista in un suo senso più alto, e nell’imponente costruzione di cemento l’opera tutta del suddetto artista.
Al centro della creazione di arte, sembra suggerire Brady Corbet, vi è il trauma, il dolore: la costruzione stessa è, in fondo, un modo che László Tóth ha di elaborare, attraverso un complicato gioco di forme e di proporzioni, tutta la sofferenza provata da lui e da Erzsébet durante la prigionia nei campi di concentramento. Il legame tra trauma e processo creativo non è però una novità nel cinema di Corbet: anche la carriera di Celeste, la protagonista di Vox Lux, prende avvio dopo il tragico e sconvolgente avvenimento che apre la pellicola.
Al tempo stesso, il processo creativo, ci racconta The Brutalist, è in quanto tale intrinsecamente portatore di dolore. L’imponente costruzione di cemento progettata da László Tóth vede la luce solo dopo quasi trent’anni dalla sua ideazione: dal progetto alla fine dei lavori, l’architetto vi si dedica anima e corpo, sacrificando tutto sé stesso e i propri risparmi.
Il tentativo di Tóth di dominare lo spazio attraverso l’architettura brutalista, fatta di immensi blocchi di cemento atti a resistere alla prova del tempo, sarà alla fine ciò che finirà per consumarlo. Da qui il paradosso e la sofferenza intrinseca dell’essere artista: il modo che László ha di esprimersi e di controllare la realtà che lo circonda finirà inevitabilmente per soggiogarlo a quello stesso mondo che cerca di domare.
In questa visione assolutamente pessimistica di colui che crea arte, non è difficile pensare alla condizione e al processo creativo dello stesso Corbet; sembra anzi quasi ironico pensare che proprio il suo progetto più complesso, più sofferto – lo stesso regista l’ha definito “un film impossibile” (visti i dieci anni che gli ci son voluti per produrre The Brutalist) soffra delle stesse problematiche del suo eroe protagonista. La realtà che, suo malgrado, finisce per imitare la finzione.
Per raccontare questa sofferenza, questa profonda condizione esistenziale, Brady Corbet costruisce un impianto narrativo mastodontico – le già citate tre ore e trentacinque, in cui il regista e sceneggiatore statunitense può esplorare la grande complessità tematica permettendo al tempo stesso allo spettatore di calarsi nella figura di László Tóth: l’epopea pluridecennale dell’architetto ebreo fatta di attese si traduce in un’opera in cui lo spettatore si trova a sentire l’incedere del tempo sulla propria pelle.
Al tempo stesso, tuttavia, The Brutalist non risulta mai faticoso da guardare: la grande maestria di Corbet – resa ancor più straordinaria se si considera la scala e ambizione del progetto e il fatto che questa è solo la sua terza prova da regista – sta nella perfetta gestione del mezzo cinematografico, in ogni singola componente (dal montaggio strepitoso, alla regia ambiziosa e visionaria, passando per l’impiego della colonna sonora di Daniel Blumberg) che trasforma The Brutalist in un’esperienza estatica che raramente è possibile vedere al cinema.
Scrivere di The Brutalist è veramente complicato: rendere l’esperienza di visione di un’opera così tematicamente stratificata, così esteticamente ricca e densa nei tempi che un festival come quello di Venezia richiede non è facile, né probabilmente possibile. Ciò che però è possibile – anche se forse è un po’ azzardato – è sottolineare non solo la grandezza di un’opera di questa portata, ma anche quanta fiducia riesca ad infondere per il futuro della settima arte per com’è stata sempre intesa, spesso (anche a questo festival) data per prossima alla morte: il grande cinema esiste ed è ancora possibile realizzarlo.
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